Autore: Nicola Dal Falco – con un saggio di Ulrike Kindl
Editore: Palombi Editori
Anno: 2012
ISBN: 9788860604262
Num. Pagine: 262
Prezzo: 15,00€
Voto:
Contenuto: (dal retrocopertina) Ey de Net e Dolasìla racconta la caduta del Regno di Fanes che la tradizione orale ladina immagina tra le Dolomiti. Storie del tempo prima del tempo, veri e propri miti delle origini, in cui fatti umani e divini sono regolati secondo gli imperscrutabili disegni del fato. Anche se Fanes è destinato a scomparire, l’alternarsi di luce e ombra promette l’avvento di un nuovo inizio. Nessun regno avrebbe mai potuto sopravvivere tra le rocce delle Dolomiti, ma la storia di un popolo, che discende dalle marmotte ed è governato da potenze primordiali, sì. Lo dicono i miti ladini dei Monti pallidi.
Recensione: Di recente mi si è fatta notare una lacuna del mercato editoriale, quella di tendere a pubblicare romanzi fantasy di matrice anglosassone anche se scritti da autori italiani. I racconti e i romanzi che siano radicati nel folklore nostrano vengono ritenuti non appetibili, poco commerciali, rappresentano un rischio di non poco conto per le tasche di un editore che, cosa da non dimenticare mai, in primo luogo è un imprenditore.
É un peccato. A volte non c’è bisogno di andare troppo lontano per scoprire storie meritevoli di essere riscoperte e raccontate, onde evitare cadano irrimediabilmente nell’oblio. É il caso di questo libro, non unico nel suo genere, che ricostruisce in una narrazione compiuta e organica un insieme frammentario di tradizioni e novelle perse nella notte dei tempi. Esse narrano del mitico popolo dei Fanes, gli antichi popolatori delle Dolomiti (i cosiddetti Monti Pallidi), di un’area geografica piuttosto estesa e densa di mistero.
Le Dolomiti ricordano i bastioni franati di un colossale castello, gruppi di monti disposti vicini, ma in maniera casuale… Più simili a un’impronta che a una catena.
Questo colossale castello custodiva nel suo ventre un popolo discendente dalle marmotte, che un giorno scopre con gran meraviglia l’esistenza del mondo esterno, inserendosi di prepotenza nella storia degli uomini. Scorge infatti un’apertura, e con essa una luce – quella del giorno – ancora più abbagliante del chiarore dei tesori nei quali era immerso nella sua clausura. Forse quei luoghi sotterranei erano la porta degli Inferi, separati dal resto del mondo da una sottile intercapedine.
Non servì a molto richiudere la fessura accidentalmente aperta. Venne infatti un re a battere con la sua spada l’entrata proibita, un intero popolo si riversò nel mondo e con esso la principessa Somavida. L’epopea ha così inizio.
Data la frammentarietà dei racconti giunti fino a noi, frutto di sovrapposizioni e contaminazioni di epoche diverse, non è sempre facile muoversi tra un episodio e l’altro, o vedervi un’unità compatta e nitida, anche perché dei popoli di cui si parla rimangono poche tracce, per non dire nessuna.
Tra le storie più belle di questa epopea ne considererò velocemente solo alcune.
Innanzitutto quella di Lidsanel, erede del regno dei Fanes, ma cresciuto sui monti, lontano dal maniero di suo padre. Lasciati i pastori che si presero cura di lui, si fece brigante. E così visse finché si presentò a valle durante una festa, partecipando a una gara di tiro a segno (cioè alla lizza). Vi era tuttavia una regola imperitura che gli vietava, in caso di vittoria, di riscuotere il premio, il quale spettava solo a chi abitasse da sempre la valle.
Ci si mette il destino, ma non solo quello. Lidsanel incontrò una vivéna, una fata del luogo, che gli rivolse per tre volte la stessa domanda:
«Lidsanel, cosa desidera il tuo cuore?»
«Null’altro che vincere, senza essere riconosciuto da nessuno.»
è la prima risposta.
Durante il secondo incontro chiede alla vivéna di riscuotere il premio che gli spettava e che gli viene negato.
Durante un assalto la sua innamorata (ecco il premio cui ambiva) muore trafitta da una freccia. Non ne aveva udito il sibilo, non si era riparata.
Nel terzo e ultimo incontro, alla solita domanda della vivéna: «Lidsanel, cosa desidera il tuo cuore?» la risposta non si fa attendere: «Vendetta.»
Eppure Lidsanel era destinato a ben altro, cioè al regno, al comando. Tutto dipendeva dalle risposte che avrebbe dato alla sua protettrice, la stessa che l’aveva indicato come erede del regno dei Fanes. Seguendo il cuore non diede le risposte giuste, quelle che gli erano state suggerite per tempo. Ora non vi erano altre domande da porre.
Il destino, non più interrogato, rimodellava il suo corso.
La seconda storia è quella di Dolasìla (o Dolasilla) , figlia di re, che divenne invincibile in battaglia grazie a delle frecce magiche e a una corazza tratta dalla pelle di marmotta.
Con la pelle di marmotta potrai farti fare una corazza bianca come la neve che resta, che ti proteggerà in battaglia… Fino alle nozze sarai una guerriera invincibile, ma attenta, se questa dovesse cambiare colore quel giorno non dovrai scendere in campo.
Se Lidsanel ebbe il consiglio di una vivéna, Dolasìla avrà quello dei silvans (uomini delle foreste, si parla dei nani in altre versioni del racconto), anch’esso in parte disatteso.
Il padre di Dolasìla, schiavo dei successi militari e avaro di tesori, non ha alcun interesse a che la guerriera si riposi o, peggio, metta su famiglia. Le cose scappano di mano: le battaglie sono vere e proprie stragi, una carneficina senza fine.
Con le armi magiche, il combattimento assumeva un altro ritmo e un altro senso più vicino alla violenza sacrificale e, ripetendosi sempre uguale, a una sorta di furia meccanica… Non era più la morte a duellare con la vita, a contenderle il passo, ma la vita a trovare in questa il suo specchio. Come una danza macabra, ogni nuova vittoria dei Fanes arricchiva il trofeo di Ade.
Il popolo dei Fanes è destinato a perdere presto il favore delle divinità che lo sostenevano, sarà destinato a sparire, a non lasciare traccia di sé. Con un sotterfugio le frecce di Dolasìla, che la rendevano imbattibile, le verranno sottratte e lei stessa perirà colpita da una di queste. Eppure poco prima aveva chiesto udienza a suo padre, perché finalmente la dispensasse dai campi di battaglia. Era giunto il momento di ritirarsi, di cambiare vita, di sposare il suo scudiero, Ey de Net, che con il suo scudo la proteggeva, deviando i colpi a lei diretti.
Il dies ad quem (il termine finale) era dato dalle nozze. Ey de Net domandò al sovrano la mano di Dolasila, Dolasìla dal canto suo l’aveva già accettato. Stanca della battaglia, si sarebbe ritirata come era giusto che fosse. Sarebbe stato il suo scudiero a continuare al suo posto. Il re, devastato da questo epilogo, decise di cacciare Ey de Net, in modo tale che la figlia continuasse la strage di nemici, e lui ad accumulare potere e tesori.
Direi che non manca niente e, anzi, c’è qualcosa in più. Da qualunque parte la si voglia guardare, quella di Lidsanel, di Ey de Net e di Dolasìla è una storia che ci è comune: il destino (il consiglio di una vivéna o dei silvans) pone una traccia e dei limiti al di là dei quali non si dovrebbe andare, permettendo tuttavia un raggio d’azione piuttosto ampio e tale da rendere effettivo il libero arbitrio del quale tanto andiamo fieri. Che sia questo, forse, il discrimine tra bene e male? Il saper controllare le passioni (che siano vendetta o ingordigia, ma anche quelle di altro genere, più lodevoli e moralmente giustificate). Almeno quel tanto che basta per non raggiungere gli estremi, gli eccessi che ci confondono le idee. Perché il bene, se esiste, in queste storie rappresenta spesso il senso della misura (l’accortezza e la prudenza). Il male a volte può esprimersi nella dismisura e nella sproporzione delle passioni. Un solo esempio (mi si permetta una digressione):
«Se bastò così poco agli angeli ribelli per mutare il loro ardore d’adorazione e di umiltà in ardore di superbia e di rivolta, cosa dire di un essere umano? Ecco, ora lo sai, fu questo pensiero che mi colse nel corso delle mie inquisizioni… Mi mancò il coraggio di inquisire sulle debolezze dei malvagi, perché scoprii che sono le stesse delle debolezze dei santi.» (da Umberto Eco, Il nome della Rosa, Bompiani p. 67)
Come si può vedere da questo assaggio, abbiamo ben poco da invidiare alla cultura anglosassone o esterofila.
Consigli di lettura sullo stesso argomento:
1. Tersilla Gatto Chanu, Saghe e leggende delle Alpi, Newton Compton Editori, Roma 2011: tra le leggende raccolte ci sono anche quelle di Lidsanel, si accenna qua e là a Dolasilla. Appare anche la celebre fiaba di Cian Bolpìn.
2. Hugo de Rossi di S. Giuliana, Fiabe e leggende della Val di Fassa, Istitut Cultural Ladin, 1984 (per chi avrà la fortuna di trovarlo). Si parla di vivéne, silvans e bregostane. I racconti sono con traduzione ladina a fronte.