Ripubblico quanto ho scritto dopo la proiezione del film al festival di Cannes 2013. Bruce Dern avrebbe poi vinto il premio come migliore attore protagonista.
Il regista e Bruce Dern sul set
Sì, buono, molto buono, con quella diabolica capacità di Alexander Payne di saper restituire in momenti brillanti, acuti, perfetti, vividi il groviglio delle relazioni umane, specialmente di famiglia, e della famiglia americana oggi. Un film costruito e condotto senza un intoppo, una smagliatura, una caduta di ritmo. Tirato a lucido con una maniacalità da artigiano di una volta e come pochi oggi in circolazione saprebbero fare. Nebraska potrebbe, se le alleanze geopolitiche in giuria lo sorreggono, vincere qualcosa, e vincere addirittura la Palma d’oro. Perché permetterebbe di dribblare quello che immagino sia il rovello della giuria attualmente al lavoro: far vincere o no La vie d’Adèle di Kéchiche con le sue lesbo-scene? La vittoria di Nebraska consentirebbe di uscire da una situazione spinosa, farebbe la gioia degli americani e non si attirerebbe troppe critiche, vista il livello indiscutibile del film. Eppure non sono impazzito per Nebraska, pur riconoscendone le evidenti qualità formali (Payne cura molto più del solito l’aspetto visivo), e quelle di costruzione e realizzazione: non sono impazzito perché si tratta di un Payne sempre bravissimo, ma ormai seriale, replicante di se stesso e dei suoi precedenti lavori. Vero che ogni autore non fa altro che coltivare e trasfondere in cinema (o in romanzo, o altro) le proprie ossessioni, sempre le stesse, ma qui ormai rischiamo l’autoreferenzialità, l’autocitazione e il manierismo spinto. Siamo ormai a un film à la Payne di Alexander Payne, ecco. Due uomini in macchina lungo le strade d’America, un viaggio che si trasforma in scontro di due personalità diverse eppure destinate, nonostante la continua frizione e perfino la collisione, a smussarsi e diventare affini e avvicinarsi. Dove l’abbiamo già visto? In Sideways (di Alexander Payne), con i due amici sulle strade californiane del vino, e un po’ anche in A proposito di Schmidt (di Alexander Payne). Un altro suo on the road in un’America altra, laterale, non centrale, con scoperchiamento e disvelamento dei lati oscuri o in penombra di due caratteri maschili: Payne non è autore di storie di donne, a parte (e correggetemi se sbaglio) Election con Reese Witherspoon, film piuttosto misogino tra l’altro. Stavolta il protagonista è un vecchio un po’ bizzoso e forse con inizio di demenza senile (è Bruce Dern, adorabile, icona del cinema anni Settanta, do you remember Tornando a casa?), con moglie-badante ormai più nemica che amica, pronta a baruffare, rimbrottare, rinfacciare. E anche vogliosa di liberarsene e di spedirlo in ospizio al più presto. Lui, avendo ricevuto uno di quei volantini promozionali che ti dicono, ingannandoti ,“hai vinto un milione di dollari”, e non essendo scafato e in grado di difendersi da simile astuzie demoniache e truffaldine del marketing, prende alla lettera quel messaggio, è convinto di essere davvero diventato milionario e rompe le palle a tutti perché lo portino a Norfolk, nel Nebraska, a incassare la somma. Tutti lo scansano, tutti cercano di farlo ragionare ma invano, solo uno dei due figli, il più buono, se lo prende su in macchina affrontando un viaggio attraverso il Nebraska (loro abitano nel Montana) per raggiungere l’ufficio della presunta elargizione milionaria. Con il dettaglio non secondario che sulla strada ritroveranno anche Hawthorne, il villaggio natale e della giovinezza del nostro vecchio, e dunque sarà un ritorno al, e dentro il, proprio passato. Anzi, proprio lì saranno raggiunti dalla madre e dall’altro fratello, e da altri parenti non visti da anni, e come in tutte le riunioni di famiglie ne verranno fuori di ogni. Tutto girato in bianco e nero, a segnalare l’intenzione autoriale e ultra-indie di Alexander Payne, come a volersi emendare da un film troppo hollywoodiano, mainstream e di troppo successo commerciale come Paradiso perduto con George Clooney. Lo si segue col massimo del coinvolgimento, ci si diverte, si sorride e si ride, anche amaro. Payne è un signore disincantato che ha saputo rinnovare e adeguare ai tempi la gloriosa commedia cinica alla Wilder, alla Lubitsch. Le annotazioni perfide abbondano, la Famiglia Americana ne esce acciaccata, ma non distrutta. Dialoghi meravigliosi. Il figlio buono: “Ma come vi sete innamorati tu e mamma?”. Il vecchio: “Non so, è stata lei a decidere tutto, a chiedermi di sposarla”. “E avete deciso quanti figli avere e quando?”. “Ma no, facevamo l’amore, quando fai l’amore capita che arrivino i figli”. Ecco, in poche parole si sintetizza un’epoca con una visione semplificata, non complessa, non contorta, del matrimonio, dell’amore, della paternità-maternità, visione oggi piallata via dalle ipernevrotiche e malate relazioni tra i sessi. Però anche in questo film ho l’impressione che Payne non spinga mai fino in fondo sul pedale della cattiveria e del disincanto e si rifugi sempre in qualche piacioneria di troppo. Désolé, ma credo proprio che non sarà mai davvero il nuovo Billy Wilder. Attori, a parte Dern (in lizza per il premio come miglior interprete maschile), non famosissimi e tutti dalla faccia giusta e dalla recitazione altrettanto giusta, che Payne sa orchestrare e dirigere benissimo. Ma sono tutte doti che in lui avevamo già ampiamente conosciuto e apprezzato. Si vorrebbe a questo punto qualcosa d’altro, un film-sfida che lo scagliasse fuori dalle sue strade, dalle sue storie di famiglia, dai suoi racconti on the road: anche se questo Nebraska è bello e, ripeto, potrebbe perfino vincere la Palma d’oro. Ma i film memorabili di questo festival, sorry Mr. Payne, sono altri (vedi alla voce La vie d’Adèle di Kéchiche).