[Recensione] Oculus (di Mike Flanagan, 2014)

Creato il 14 aprile 2014 da Frank_romantico @Combinazione_C

Ho parlato spesso delle pessime condizioni in cui ristagna l'horror contemporaneo. Forse addirittura ne ho parlato troppo, quindi non starò qui a menarvela con i soliti discorsetti: l'horror non produce più nulla di realmente degno da un paio d'anni a questa parte (ovviamente parliamo di horror maisterman) e tutto ciò che di positivo ci è arrivato è arrivato da quella faccia malese di James Wan (The Conjuring) o quell'inaspettato colpo di culo fortuna che è stato Sinister. Questo senza andare a disturbare la produzione underground/indipendente più recente. Né voglio fare di tutta l'erba un fascio, perché quel che non è piaciuto a me è piaciuto a qualcun'altro, quindi restiamo nel campo del gusto personale. Quel che è certo è che dal 2012 (l'anno di Quella Casa nel Bosco) non c'è stato nessun horror che abbia messo d'accordo cinefili, critici e horrorofili. Forse anche per questo aspettavo con ansia l'uscita del recentissimo Oculus, horror sovrannaturale con Karen Gillan (fan del Doctor Who, unitevi) e Brenton Thwaites, diretto da Mike Flanagan.
Ora i più si chiederanno chi sia questo Flanagan, ma se leggete Combinazione Casuale dovreste conoscere un film intitolato Absentia che io (ma non solo io) trovai incredibilmente interessante, particolarmente pauroso, una di quelle opere indi spesso caratterizzate da tante (belle) idee e budget infimi. Bene, Absentia è stato il primo lungometraggio diretto (e prodotto) da Mike Falangan mentre Oculus è il secondo, tratto dal cortometraggio dello stesso regista intitolato Oculus: Chapter 3 - The Man with the Plan. Un film con un budget meno povero e attori (bravi o meno che siano) rodati, che si è fatto già notare l'8 Settembre scorso al Toronto International Film Festival. Un film con una trama all'apparenza banale e scontata, storia a base di fantasmi e case stregate che però così scontato e banale non è.
La storia di due fratelli, Tim e Kaylie Russell, vittime di una tragedia familiare quando erano ancora dei ragazzini culminata con l'assassinio della madre ad opera del padre e del padre ad opera del piccolo Tim, rinchiuso poi in un ospedale psichiatrico. Undici anni dopo Tim, compiuti 21 anni, esce di prigione e si ricongiunge alla sorella. Kaylie che però non è mai stata convinta della colpevolezza di suo padre e suo fratello ed è ancora convinta che ad uccidere i suoi genitori sia stata una forza soprannaturale proveniente da un antico specchio custodito nella loro casa di famiglia.

Quella che apparentemente potrebbe sembrare la classica ghost story a base di case (o oggetti) infestati, non è in realtà la classica ghost story a base di case o oggetti infestati. Questo perché il regista sembra conoscere bene il suo mestiere e sembra conoscere a menadito la produzione horror internazionale da 50 anni a questa parte. In Oculus, Flanagan cita pellicole varie e molto diverse tra loro (Shining, Amityville Horror, The Descent, The Conjuring, Il Signore del Male, quindici anni di prodotti j-horror) e gioca con stili e sottogeneri (il filone delle case infestate, l'horror sovrannaturale, il found footage, lo spatter, il thriller psicologico) fino a creare un prodotto che, pur non essendo un capolavoro, si rivela un gioiellino e una boccata d'ossigeno per il genere.
Perchè Flanagan, pur citando e giocando, non copia. Perché pur trattandosi, sulla carta, di un film che fa il verso a tanti altri film, Oculus possiede una propria identità e non è uguale a nessun altro film girato prima d'ora. Non guarda al passato con aria sconsolata, non vuole riproporre la lezioncina in maniera pedissequa e arriva quasi a ironizzare sul genere stesso. Anzi, vi dirò di più: a suo modo Flanagan dimostra ancora una volta quanto l'orrore che intende raccontare sia di stampo lovecraftiano o, più in generale, letterario, e quanto poco importi per lui quello che c'è dall'altro lato dello specchio. Ciò che interessa al regista/autore è il lato umano della vincenda, quello psicologico, l'indagine che non si ferma alla superficie di uno spavento telecomandato ma che va a fondo, indagando (anzi, investigando) nell'anima dei suoi personaggi. Oculus vuol dire "occhio", gli occhi sono lo specchio dell'anima, lo specchio è, nel film, simbolo non di quel che viene riflesso ma di quel che si trova in profondità. Flanagan gioca con i piani narrativi, con quelli temporali fondendoli, riflettendoli e confondendoli come confonde lo sguardo dei protagonisti. Le presenze sovrannaturali qui sono di contorno, quasi spettatrici, addirittura poco interessanti, buone per qualche spavento e poco più.

Virtualmente diviso in due parti, Oculus gioca con lo spettatore senza tentare mai di prenderlo in giro. La prima parte, in cui viene instillato il seme del dubbio, si fa notare per suspance e giochi psicologici; la seconda vira prepotentemente nell'horror dosando i soliti trucchetti (pochi ma ci sono), il sangue e le apparizioni, reali o immaginate che possano essere. Un montaggio perfetto, movimenti di camera mai lasciati al caso, un sonoro conturbante e una sceneggiatura che ha il pregio di non cadere mai in buchi narrativi (ma richiedendo comunque una certa sospensione dell'incredulità) fanno il resto, perché questo è uno dei casi in cui al comparto tecnico vanno più della metà dei meriti. Bene anche le prove di Karen Gillan, di un Rory Cochrane novello Jack Torrance e di Katee Sackhoff, un po' meno quella del bambolotto Brenton Thwaites.
Alla fine Oculus non sarà il miglior horror degli ultimi anni, non sarà una produzione stellare (si parla di 5 milioni di dollari) e forse paga il fatto di essere un lungometraggio (1.45h) tratto da un cortometraggio, con una decina di minuti di troppo (ma a me non ha annoiato mai). Di certo non è un horror alla Wan che va tanto di moda. Potrà non piacere (ringrazio i bimbominkia in sala), potrà non fare paura. Ma è un horror onestissimo che percorre una strada che è solo sua. E lo fa alla grande.  Mio punto di vista, ovvio.


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