Recensione-O.S. Blacklands, di Belinda Bauer

Creato il 31 gennaio 2012 da Patriziabi (aspassotrailibri) @openars_libri

Blacklands, di Belinda Bauer – ed. Marsilio – 2011.

Giudizio 4/5

Trama. Steven Lamb ha dodici anni anni, e passa il suo tempo a scavare buche nell’Exmoor. Spera di trovare il corpo di suo zio. Sono passati quasi vent’anni da quando il piccolo Billy, allora undicenne, è scomparso, probabilmente vittima del serial killer Arnold Avery, ora in carcere. Eppure, la nonna materna di Steven lo sta ancora aspettando, mentre la famiglia intorno a lei va in pezzi, incapace di superare una perdita così crudele. Per chiudere finalmente i conti con il passato, Steven decide di scrivere ad Avery una lettera anonima, chiedendo indicazioni sul luogo in cui ha sepolto Billy. Ma quando Avery capisce che ha di fronte un bambino, in lui ritorna prepotente l’istinto del killer. [dal sito della casa editrice]

Scrittrice. Belinda Bauer, nata in Gran Bretagna, ha vissuto in Sudafrica e negli Stati Uniti, prima di stabilirsi nel Galles. Ha lavorato come giornalista e sceneggiatrice per cinema e tv. Blacklands è il suo primo romanzo, già venduto in 22 paesi, vincitore del Gold Dagger 2010, selezionato come Exceptional Debut da «Publisher’s Weekly» e «Bookseller», tra i 10 titoli imperdibili di tv Book Club nel 2010. [dal sito della casa editrice]

Osservazioni speciali di Patrizia.

Qualche tempo fa, in questo post, ho parlato dell’iniziativa della Marsilio che ha chiamato a raccolta cento bloggers affinchè si esprimessero su una delle due opere, formato e-book, messe a disposizione gratuitamente dalla casa editrice.
La mia scelta era caduta su questo romanzo, esordio della scrittrice inglese Belinda Bauer.
Queste le mie considerazioni.

Non tutti i gialli possono vantare atmosfere cupe, scenari foschi e tinte monocrome, dalla prima all’ultima pagina, senza scadere nella noia: Blancklands ha questo merito, e non solo.
Tutto in questo romanzo è stato scelto con perizia, attenzione, precisione quasi maniacale. Tutto, ogni più piccolo particolare, all’apparenza insignificante, deve contribuire a mantenere coerente il percorso intrapreso, deve sostenere il velo, la patina sottile che lega il lettore alla storia.
L’esordio letterario di Belinda Bauer ha il sapore della vittoria, perché non ha pretese, né presunzioni, perché umanizza con maestria sia i protagonisti che le scene: non mere pedine alla mercè le une delle altre, ma elementi che concedono solidità alla struttura dell’intera opera, che certamente sorprende essere il frutto di un’esordiente giallista.
Il fascino di questo romanzo risiede nelle ombre, nei toni del grigio da cui non si ha via di scampo, nella sensazione costante, quasi soffocante, opprimente, di vagare fisicamente nella nebbia, con gli occhi spalancati senza vedere nulla. La sensazione è corroborata dal ritrovarsi del lettore stabilmente immerso, senza via d’uscita, nella radura di Exmoor, a scavare in una brughiera che “grondava felci sudicie, erba ispida e scialba, ginestra spinosa ed erica giovane”, insieme ad “un ragazzino di dodici anni, solo, che indossava una cerata nera e lucida, ma senza cappello, e con un badile in mano.”
E’ questa la suggestiva immagine di apertura del romanzo, quella che non riusciremo a scrollarci di dosso per tutta la durata del viaggio che ci condurrà tra le tante sfumature di grigio della storia.
Si può percepire, innegabilmente, già da queste prime righe come il grigio sia il colore dominante di Blacklands.
Grigio è il colore della foschia, della nebbia, che avvolgono la cittadina ed i prati di Exmoor. E’ il colore della vita del protagonista, Steven, “uno scolaro mediocre, un ragazzo tranquillo che raramente dava motivo di preoccupazione o attirava l’attenzione”, alla ricerca di un passato quanto mai presente ed invadente nella sua famiglia (la ricerca, l’incessante scavare, “per tre anni questa era stata la sua vita. Tre anni! Si sentiva come un uomo a cui fosse stata appena comunicata una sentenza“). Il grigio è il colore della sua stessa famiglia, composta dalla mamma Lettie, dalla nonna, dal fratellino e dalla presenza discreta dei compagni della madre, gli “zii”, tra cui spicca per affetto e fare paterno lo zio Jude, colui che gli ha svelato il segreto della vita e che gli ha regalato il tanto importante badile, con cui scava nella brughiera, per ritrovare il corpo di Billy, e nell’anima della sua famiglia, per risvegliarla dal torpore.
Il grigio è il colore dei sentimenti che vengono narrati in questo bel romanzo, della rabbia, della malinconia, dell’amore, che pervadono l’esistenza incompiuta di ognuno dei personaggi senza mai sfociare nel nero del baratro.
E’ il colore di ciò con cui Steven si confronta quotidianamente: l’amicizia con Lewis, a cui venne l’idea della “caccia al corpo” (nonché colui che lo riteneva il migliore, fino a quando “Steven fece la sua scoperta, e le cose cambiarono per sempre. Quando avevano nove anni vennero beccati nella stanza di Billy”), il bullismo di cui Steven è vittima, il rapporto con la nonna (che “aveva iniziato la sua vita come Gloria Manners. Poi era diventata la moglie di Ron Peters. Dopodiché era stata la mamma di Lettie, poi la mamma di Lettie e di Billy. Infine, per parecchio tempo, la povera signora Peters. Adesso era la nonna di Steven. Ma sotto sotto sarebbe rimasta sempre la povera signora Peters: nulla avrebbe potuto cambiarlo, neppure i suoi nipoti”), quella nonna alla quale urla, senza risparmiarsi, il suo bisogno di considerazione, amore, il bisogno vitale di “essere visto”. Ed ancora è il colore del rapporto con la maestra che non ricorda il suo nome, né il suo esistere. E’ il colore dei volti, con lo sguardo perso nel passato, fissati in un’istantanea sbiadita: come il viso della madre, “sciupato e gli occhi blu smorti come un mare del nord”.
Tutto questo è percettibilmente grigio.
Il linguaggio utilizzato dalla Bauer, le parole ponderate, come ho affermato in precedenza, sottolinea la capacità narrativa dell’autrice, confermando che in un giallo non è necessario  far scorrere sangue a fiumi per renderlo accattivante: le sfumature del lessico sono il vero punto di forza di un buon romanzo giallo.
In Blacklands si alternano e si scontrano, per creare suspence, due prospettive, ciascuna associata ad una sensazione nitida e riconoscibile: laddove si parla del presente è il colore grigio, il fosco, che domina le scene, bucato solo dai lampi di luce e calore che lessicalmente individuano il passato.
Si noti il cambio di registro in queste scene.
Diciannove anni prima, in una calda serata estiva” avviene la scomparsa dello zio, William Peters. Le circostanze sono ben chiare al piccolo Steven: lo zio Billy è stato vittima della mano brutale di un serial killer, un pedofilo, “Arnold Avery venne accusato di sei omicidi e nove rapimenti di minore”. Billy era un “bambino di undici anni con le guance rosate, i capelli biondi, le scarpe da ginnastica della Nike nuove e un sacchetto di Maltesers in mano”.
Brevi citazioni dall’opera evidenziano con chiarezza come la scena, immersa nel ricordo, acquisti istantaneamente luce, aria e colore, duellando con il cupo ed inaccettabile presente.
Blacklands è un giallo puro, che non sfocia mai nel poliziesco, né nel thriller: il lettore non assiste, infatti, ad indagini volte alla scoperta del “cattivo”, né alla descrizione dei particolari più inquietanti che tanto piacciono ai thrilleristi, che per definizione ricercano il macabro.
Dai primi capitoli il lettore è già a conoscenza dei delitti, delle vittime, del loro nome, dell’assassino, e del suo modus operandi, che non è necessario scovare tra lande desolate, fuggiasco fuori dai confini del mondo. Arnold Avery, il cui godimento criminale sta nel “vedere la paura e la confusione – e i sensi di colpa – sulle facce” delle vittime, è detenuto e la sua vita riprende a macinare morte quando riceve la prima lettera del piccolo Steven, in cui “egli aveva scritto al diavolo e gli aveva chiesto pietà”, la pietà di svelargli il luogo in cui vent’anni prima ha seppellito suo zio.
Da questo punto in poi la prospettiva si ribalta ed il carnefice tramuta il gioco, fisico, della “caccia al corpo” in un massacro psicologico. E’ lui, a cui è stata vietata la vista della brughiera dalle sbarre della cella, che confronta il suo mondo con le assi della finestra murata, che immagina Dunkery Beacon, il punto più alto della collina, la sua ossessione, la sua perversione, il luogo in cui sono stati trovati tutti i corpi delle sue vittime.
Avery, che ha scolpito, sulle panchine di legno costruite in carcere, i nomi delle sue vittime, è l’aiuto vitale di cui Steven ha bisogno; Steven è l’aiuto vitale di cui Avery ha bisogno per esistere, “un’altra occasione per sentire quella terra sulle dita, per sbirciare nelle luride buche che aveva scavato”.
Si presentano, con ritmo sostenuto, l’occasione per l’evasione, l’incontro -per entrambi- con il proprio passato ed il proprio presente, i conti con il destino.
Un romanzo avvincente, finemente costruito, senza esagerazioni di sorta. La fanno da padrone tinte fosche che attraggono piacevolmente il lettore, rapito dall’apparente debolezza dei personaggi, in realtà impregnati di forza e caparbietà. Un esordio eccellente, che non delude.

Belinda Bauer
Blacklands
ed. Marsilio
Anno 2011
(Cartaceo: pagg. 295, ISBN 9788831709989)

Dal romanzo…

“Erano abbinate alla trapunta a quadri blu e azzurri che faceva a pugni con il turbinio marrone del tappeto. Sul pavimento c’era una stazione spaziale del Lego, costruita a metà, e da quando Steven era stato lì l’ultima volta un ragnetto aveva tessuto una ragnatela su quello che aveva l’aria di un rozzo molo di attracco. Adesso era in attesa di catturare le mosche, satelliti provenienti dallo spazio esterno di quella misera stanza da letto.” (pos. 130-33)
“Lettie si costruì un guscio di rabbia e ribellione per proteggere il proprio centro molle: aveva quattordici anni e le mancavano suo fratello e sua madre in egual misura, come se glieli avessero portati via tutti e due in quella calda serata di luglio.” (pos. 169-70)
“Steven si sentiva incoraggiato. Avere lì l’amico faceva sì che Steven si sentisse meno strano – come se scavare mezza Exmoor per trovare un cadavere fosse perfettamente normale, purché ci fosse un amico a fargli compagnia.” (pos. 752-54)
“Steven abitava nel Somerset, ma non era un sempliciotto. Aveva un cd di Eminem e aveva visto un sacco di delinquenti in film hollywoodiani fracassoni e violenti.” (pos. 847-48)
“Si alzò barcollando, immerso nel cielo bianco. Il badile era là dove l’aveva gettato un’eternità prima, vicino al cestino del pranzo e alla mappa: manufatti alieni che non avevano alcun significato, in mezzo a quella nebbia alla fine del mondo.” (pos. 1199-1201)
“Steven fissò i calzini di Avery e provò uno strano senso di meraviglia. Erano così normali. Così ordinari. Come poteva essere un serial killer, uno che alla mattina si infilava dei calzini come quelli? Erano buffi, muffole per i piedi, ecco cos’erano. Le dita sembravano delle protuberanze dei piedi e i piedi delle ridicole marionette a forma di calzino. Uno con dei calzini come quelli davvero non poteva essere una minaccia per nessuno, neppure per Steven.” (pos. 3353-56)


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