Recensione "Portami a casa" di Jonathan Tropper

Creato il 21 gennaio 2015 da Saraguadalupi
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Alcune famiglie possono diventare tossiche, se ci si sottopone a prolungata esposizione. E la famiglia Foxman, in particolare, può raggiungere un livello di tossicità letale. Ecco cosa sta pensando il trentenne Judd Foxman mentre, di fronte al suo piatto di salmone e patate, cerca di estraniarsi dalle urla dei nipotini. Il telefono del cognato non smette mai di squillare, la sorella non fa che scoccargli frecciatine acide, in combutta con il fratello minore, mentre la madre, stretta in un vestito troppo provocante, gli rivolge solo sguardi di commiserazione. L'unico desiderio di Judd è scappare lontano e non pensare più a tutti i guai della sua vita. Perché Judd è senza casa, senza moglie, che l'ha appena tradito con il suo capo, e ora anche senza più un padre, morto all'improvviso. Per questo è dovuto tornare a casa e non può fuggire. Le ultime volontà del padre richiedono che venga celebrata la Shiva, il periodo di lutto prescritto dalla religione ebraica: per sette giorni consecutivi tutta la famiglia dovrà riunirsi sotto lo stesso tetto. E sette giorni possono essere un tempo infinito, soprattutto se i componenti della famiglia sono tutti fuori di testa e non riescono a stare per più di ventiquattr'ore insieme senza scannarsi. Ne bastano molte meno perché la casa diventi una polveriera pronta per esplodere a causa di vecchi rancori, passioni mai sopite e segreti inconfessabili.
La storia che ci viene narrata da Tropper, riguarda la famiglia Foxman ed in particolare Judd Foxman, trentenne incasinato che, nel giro di pochi mesi si ritrova ad avere a che fare con una moglie adultera, un capo traditore (è lui il soggetto dell’adulterio), un lavoro perso ed un padre deceduto dopo una lunga malattia. Insomma, un cocktail di sfortuna mica da ridere! La conseguenza di tutti questi avvenimenti, è che il nostro caro protagonista si ritrova a non avere più un soldo, ed a dover pagare da solo l’affitto della casa. Ciò che ci apre la strada verso il panorama familiare di Judd è la morte del padre, che lo porta a ritornare nella casa in cui è cresciuto e, come se non bastasse, a dover rispettare le ultime volontà del padre che, pur da credente non osservante, ha predisposto che, alla sua dipartita, la famiglia partecipasse alla Shiva – periodo di sette giorni di lutto nella religione ebraica. In pratica i parenti del defunto di primo grado, si ritrovano per sette giorni, senza poter uscire, a casa dello stesso per accogliere i visitatori in cordoglio.  Ora, provate ad immaginare una famiglia decisamente incasinata, nella quale i componenti a malapena sanno cosa fa l’uno o l’altro nella vita, costretta a vivere sotto lo stesso tetto per una settimana. E’ un delirio. E così, i Foxman si ritrovano a dover fare i conti con conflitti semisepolti da tempo, vecchi litigi e ricordi del passato. Per farci comprendere meglio i rapporti tra i componenti della famiglia, ed in particolare tra i quattro figli - Judd, Wendy, Paul e Philip -, Tropper alterna la narrazione tra i ricordi del passato e gli avvenimenti durante la Shiva del presente: in questo modo il lettore riesce a capire perfettamente il ruolo di ogni componente ed ad intrecciare tra loro passato e presente, in una rete che incastra perfettamente ogni avvenimento, come un grande puzzle. Troviamo Wendy, in assoluto il mio personaggio preferito, che è una donna senza filtro: non pensa troppo a quello che dice e spesso regala alla famiglia momenti di imbarazzo per le sue battute sarcastiche ed inopportune. Sarcasmo che, come scopriremo durante la lettura, nasconde la sofferenza per un matrimonio non proprio da favola. Poi c’è Philip, il più piccolo dei fratelli Foxman, nato 10 anni dopo Judd e cresciuto a coccole e vizi; ed infine, troviamo il rapporto tra Judd e Paul, controverso e minato da un avvenimento che ha cambiato per sempre la vita di quest’ultimo (che non manca mai di scaricare le colpe sul fratello).
Questo è il primo romanzo che leggo scritto da Tropper e, devo dire che mi ha ricordato un po’ “Io che amo solo te” di Luca Bianchini, non tanto per i fatti narrati, quanto per la scelta di voler parlare di un contesto come tanti: una famiglia riunita con tutti i suoi casini ed i suoi segreti, ma in modo ironico e soprattutto senza riserve né peli sulla lingua! Ciò che deve essere detto, viene detto, senza finte censure, senza ricami per rendere il tutto più digeribile. No, niente di tutto ciò, solo la verità, nuda e cruda, come molte ce ne sono nelle famiglie di tutti i giorni. I dialoghi sono eccezionali e, a tratti esilaranti, proprio per il loro non-avere un filtro e contribuiscono a rendere alcuni avvenimenti sorprendenti, anche se magari un po’ prevedibili.
Tropper ci mostra l’essere umano comune in tutte le sue sfumature, i suoi problemi e le sue relazioni con la famiglia ed i rispettivi consorti. E ci mostra quanto sia difficile relazionarsi con le persone dopo tanti anni, seppure con lo stesso sangue nelle vene, ed al tempo stesso ci ricorda che la famiglia in sostanza è l’unica che comunque vada ti rimarrà sempre accanto e ti perdonerà (quasi) ogni cosa. Questo messaggio io l’ho imparato non da molto, forse perché, quando si è adolescenti si entra nell’ottica che gli amici sono tutta la tua vita, gli unici in grado di capirti.. poi, crescendo, ci si rende conto che non è proprio così e che, a differenza degli amici che vanno e vengono (ad eccezione di alcuni “storici”), la famiglia è sempre lì, pronta ad aprirti la sua porta quando lo desideri, ed a sorreggerti quando non ci sono altre mani a farlo.
Mi è piaciuta la famiglia Foxman. Mi è piaciuto il viavai di gente nella loro casa ed ancor più i commenti dei fratelli su ogni persona, pungenti, ironici e irriverenti verso quei parenti che appaiono solo in queste tristi occasioni, con l’intento probabilmente di portarsi a casa un pezzetto di eredità. Mi è piaciuta l’idea di quante cose possono cambiare in soli sette giorni, di quante parole si possono dire e di quanti ricordi possono riaffiorare. E mi è piaciuto Judd, anche se ammetto che all’inizio non mi ha entusiasmata più di tanto: diciamo che ho imparato a conoscerlo ed apprezzarlo nel corso della lettura. In lui ho visto un uomo tormentato ma al tempo stesso troppo orgoglioso per mostrarlo ai quattro venti, un uomo che ha perso tutto, comprese le motivazioni per andare avanti ma che conserva, inconsciamente, una briciolina di speranza in fondo al cuore. Quella stessa briciolina che, più forte di ogni perdita, lo aiuterà a camminare nonostante tutto. Questi spaccati di realtà mi sono sempre piaciuti, in qualunque genere di lettura e, anche qui, non sono rimasta delusa, anzi!
“Portami a casa” è una lettura leggera e divertente, grazie ad un autore che da ad ogni cosa il giusto peso, senza però soffermarsi troppo sulla tragicità egli eventi, ma cercando di trovare dalle sofferenze degli spunti di rinascita, spunti per i protagonisti del romanzo ma anche per il lettore che si ritrova a riflettere sulla propria vita e sulle proprie priorità. Un libro che consiglio davvero a tutti!
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