Recensione: Quella vita che ci manca, di Valentina D'Urbano

Creato il 10 ottobre 2014 da Mik_94
Tu per me sei puro istinto, sopravvivenza. Tu sei il pezzo di vita che mi manca.
Titolo: Quella vita che ci manca Autrice: Valentina D'Urbano Editore: Longanesi Numero di pagine: 332 Prezzo: € 14,90 Sinossi: Gennaio 1991. Valentino osserva le piccole nuvole di fiato che muoiono contro i finestrini appannati della vecchia Tipo. L'auto che ha ereditato dal padre, morto anni prima, non è l'unica cosa che gli rimane di lui: c'è anche quell'idea che una vita diversa sia possibile. Ma forse Valentino è troppo uguale al posto in cui vive, la Fortezza, un quartiere occupato in cui perfino la casa ti può essere tolta se ti distrai un attimo. Perciò, non resta che una cosa a cui aggrapparsi: la famiglia. Valentino è il minore dei quattro fratelli Smeraldo, figli di padri diversi. C'è Anna, che a soli trent'anni non ha ormai più niente da chiedere alla vita. C'è Vadim, con la mente di un dodicenne nel bellissimo corpo di un ventenne. E poi c'è Alan, il maggiore, l'uomo di casa, posseduto da una rabbia tanto feroce quanto lo è l'amore verso la sua famiglia, che deve rimanere unita a ogni costo. Ma il costo potrebbe essere troppo alto per Valentino, perché adesso c'è anche lei, Delia. È più grande di lui, è bellissima - ma te ne accorgi solo al secondo o al terzo sguardo - e, soprattutto, non è della Fortezza. Ed è proprio questo il problema. Perché Valentino nasconde un segreto che non osa confessarle e soprattutto sente che scegliere lei significherebbe tradire la famiglia. Tradire Alan. E Alan non perdona. Questo è un romanzo sull'amore, spietato come solo quello tra fratelli può essere. Ma è anche un romanzo sull'unico altro amore che possa competere quello che irrompe come il buio in una stanza.                                             La recensione Quando l'estate finiva, leggevo Il rumore dei tuoi passi sul balconcino della mia stanza, in mezzo a pomeriggi che alle sei e mezza già erano bui, a zanzare stanche di ronzare, a tende per il sole da togliere, ché tanto, per quell'anno, sbiadite com'erano per gli acquazzoni di giugno e luglio, il loro lavoraccio l'avevano fatto. Qualcuno, con bomboletta alla mano, aveva scarabocchiato, durante la notte, una dedica sulla saracinesca di un garage. Una di quelle pacchiane, sgrammaticate, che finiscono dritte dritte su Facebook. Quello stesso qualcuno, due mesi dopo, sarebbe ritornato sulla scena del crimine a cancellare il cuore spigoloso e i loro nomi dentro, disegnando al suo posto una chiazza nera che, quando sono partito, sbavava ancora colore e rancore. Quei teppistelli non si amavano più. La Fortezza era un po' ovunque, anche intorno a me e te. Le cartacce e le buste di plastica del mercato del martedì mattina erano arrivate fino sotto casa; le circolari riversavano in giro ragazzetti incappucciati, incazzati, arrivati dai paesini tutt'intorno perché si erano beccati uno o due debiti e dovevano arrivare di corsa al Ragioneria, così, almeno per dire ai loro genitori di averci provato; una signora, da qualche parte, sbraitava contro la figlia perché, la notte prima, era rientrata tardi dall'ultima festa in spiaggia. In mezzo a quel casino leggero, destinato ad andarsene via magicamente con il passaggio dei netturbini, l'affissione dei quadri con i risultati degli esami sull'uscio della scuola, le scuse poco convinte che la figlia avrebbe fatto alla mamma isterica di turno, mi veniva naturale allungare il collo e cercare Alfredo e Beatrice. Ho letto di loro per pochissimo, ma abbastanza da farmene un'idea nitida. Sarà che già li conoscevo: Il rumore dei tuoi passi aveva ormai due anni e, sia chi lo aveva trovato bello, sia chi lo aveva trovato brutto, mi aveva parlato dei “gemelli” con giochi prolettici velati e un tono che lasciava poco spazio all'immaginazione: i loro destini erano già segnati. Quella vita che ci manca mi è arrivato qualche giorno prima dell'uscita in libreria, ma tra Donato Carrisi che mi distraeva con il suo ultimo romanzo, al solito, e il famoso esame che restava della sessione autunnale, l'ho iniziato precisamente la sera del due ottobre. L'idea che, altrove, ci fossero altre persone che lo stavano scoprendo insieme a me, da zero, non so perché mi piaceva. Partivamo insieme; mica come l'altra volta, che ero arrivato tardi e tutti conoscevano tutti, meno che me. Io ho conosciuto Valentina D'Urbano con Il rumore dei tuoi passi e, con il secondo romanzo ancora da leggere, l'ho ritrovata qui, due anni dopo... o solo qualche mese dopo. Cresciuta, comunque, di botto. La penna, affilata e ruvida, è la stessa. Una penna che gratta il foglio quand'è scarica, perde inchiostro, reclama trasfusioni di sangue umano che ti vogliono stremato, e sanno renderti tale. Ma i tratti, questa volta, sono più sicuri: la grafia è riconoscibile, la maturazione si scorge lettera dopo lettera. L'incipt, scritto in corsivo, è il pensiero di un uomo violento e disperato, affetto da un romanticismo di quelli che logorano: il lettore non sa bene a chi appertenga, il lettore vorrebbe evitare che quella cosa accada. Può supporlo. Può sperarlo. Ancora una volta, l'epilogo si intuisce dall'incipit, ma la mazzata arriva comunque: dal primo rigo al colpo mortale, però, ce ne sono di cose belle e di cose bellissime. 
Si ritorna alla Fortezza: il quartiere che tutti vorrebbero abbandonare, ma che ti attira come il magnete fa con il ferro. Lì, loschi traffici. Loschi traffici di emozioni forti. Il panorama, se hai letto l'altro romanzo, lo conosci già. Le case sgretolate, un Anfiteatro che non ha nobili storie da tramandare, una chiesa che tutti chiamano la Pagoda per distinguerla dal profano squallore circostante, un unico bar che c'è da sempre e che da sempre apre e chiude quando gli pare. Lì si incontrano di nuovo Francesco e Arianna, che ti chiedono com'è che stai; lì si parla ancora di un ragazzo debole, con i capelli biondi e le maniche lunghe portate anche d'estate, e della ragazza che trovò la forza per costuirsi una vita altrove. Personalmente, amo i romanzi in prima persona. Li preferisco da sempre. Questa volta, però, l'autrice adotta la terza persona e, con focolai diffusi di punti di vista diversi, mi ha aperto maggiormente gli occhi sulle gioie e i dolori di quella gente, lasciando vagare lo sguardo al di là dei cancelli improvvisati che separano la periferia dalla città, contemplando per un po' quello che c'è fuori, ma non allontanandosi mai troppo da un confine che è invisibile, eppure pesa. Un passo falso, un passo di troppo, si dice, e alla Fortezza ti sparano addosso. A bruciapelo. 
Come in una guerra che è male disertare. In questa guerra che si spinge oltre, ho conosciuto la famiglia Smeraldo a bordo di una Tipo sgangherata. Ricordo che, negli anni '90, ce l'aveva anche il mio papà: prima che io nascessi era stata grigia, poi si era stinta, come fanno le mutande in lavatrice: almeno quando la faccio io la lavatrice. Però di quella famiglia a cui ho voluto bene, ma davvero, e da subito, conservo un'altra immagine. Loro messi in fila, in un budello di corridoio, in attesa di un'ospite speciale: una ragazza, Delia, che aveva reso felice il più piccolo di casa. Una donna invecchiata male, che lavora onestamente e si addormenta vestita sul divano: ha avuto tanti uomini, da giovane, e si chiamava Letizia. Adesso è solo Mamma: la lettera grande, come fosse un nome proprio. Anna, quasi trent'anni, destinata a un futuro da zitella: come si fa, a trent'anni, a essere senza speranza? Vadim, di una bellezza straordinaria ma annebbiata da una mente difettosa: un Forrest Gump con la testa che sbuca da un mazzo di girasoli, comprati per la nuova ragazza di cui si è innamorato come fanno i bambini, a prima vista. Alan: la fedina penale sterminata, lo sguardo da canaglia e il sorriso da squalo, una pistola nei jeans con cui sentirsi il dio del mondo, un altro nome di merda preso in prestito dalle telenovelas di cui la madre si droga. Valentino parcheggia, sale le scale, sbuca dall'ascensore: la ragazza secca al suo fianco, con i capelli storpiati, le tette minuscole, i vestiti improbabili, si chiama Delia e l'ha reso felice, sì. Ma l'ha reso pure distante, diverso, migliore. Quella vita che ci manca non è la storia d'amore che la sinossi annuncia: non c'è il colpo di fulmine, nessuno salva nessuno. Si fa l'amore per non ammazzarsi, da quelle parti. Il romanticismo trova spesso spazio nella narrativa, raramente il rapporto tra fratelli – con mazzate, baci sulla fronte, abbracci e morsi incorporati. Immancabili gli occhi lucidi, perché è quello che colpisce. Mi ha ricordato perché voglio bene al mio, di fratello, anche se lo vedo e sono preso in automatico da istinti omicidi: ho scritto in chat a Valentina, a fine lettura, e sulla destra, mi è comparsa la foto di lui. Online, anche se a quell'ora aveva lezione di Matematica. Un marmocchietto col ciuffo biondo, che è più alto di me di dieci centimetri, ma che vedrò sempre piccolo, con gli occhi pure lui azzurrissimi e la sigaretta in mano. E' la storia della splendente famiglia Smeraldo, questa, e di due fratelli separati da una donna e da un sogno. Alan rompe e fa volare santi e madonne, Valentino aggiusta e prega in silenzio - quando la decisione giusta è quella sbagliata, quando gli abbracci spezzano le ossa della schiena e quelle delle mani, quando la prigione è maestra di vita e quegli stessi occhi azzurro chimico sono una condanna. Fine pena, mai. 
Non gli si era piantata nel cuore. I corpi estranei sono più facili da estrarre dai tessuti molli. Lei gli si era piantata nelle ossa. Il suo ricordo era rimasto lì, si era calcificato male e ora non riusciva più a tirarlo fuori. Lui la amava. E lei gli aveva avvelenato il sangue.” Il mio voto: ★★★★ Il mio consiglio musicale: Le luci della centrale elettrica – Cara Catastrofe



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