«Padre, sento che si guarda intorno, lo so che non c’è nessuno se non quella storpia di serva, ma io certe cose gliele posso dire solo a bassa voce, sono anni che ci penso, sono anni che le ripeto dentro di me, sempre nella stessa identica maniera.»
Cari amici di Diario, Quelle mani è il secondo romanzo di Carmela Cammarata, scrittrice partenopea, classe 1956: leggetelo! Sì, l’invito suona un po’ categorico ma vale la pena di incontrare Zlata, la protagonista, e di confrontarsi con ciò che rappresenta: la malvagità. Potreste scoprire che alberga da qualche tempo dentro di voi mascherata subdolamente da finta benevolenza e, se vorrete, potrete sfruttare il cattivo esempio di Zlata per tentare di liberarvene. Scherzi a parte, ognuno di noi ha un lato oscuro ma quello della protagonista di questo romanzo vi lascerà senza parole. Del Vecchio Editore non sbaglia quando scrive che l’autrice regala ai lettori il respiro ininterrotto di una novella crudele e amara. Parliamone.
Trama: Zlata ha investito tutta la sua vita per la riuscita dei figli. L’ha controllata, centellinata, supervisionata in una famiglia matriarcale in cui il marito non conta niente. Zlata ha tutto sotto controllo, da sempre. Persino quando arriva il nano, sa dove metterlo e come farlo fruttare. Un giorno però arriva lei, e si capisce subito che non può nulla contro quella puttana, contro quella odiosa che le ruba il figlio. Bella, nera ed eccitata. Le tenterà tutte e rischierà di farcela, pagando un caro prezzo.
RECENSIONE La nostra protagonista, ormai vecchia, malata e completamente sola pensa bene di finire la sua vita confessando il Male nel quale ha vissuto ogni momento della sua esistenza a un giovane parroco. Peccato che la confessione non sia altro che l’ennesimo tentativo di perorare le sue personalissime ragioni; tant’è che fino all’ultimo non riconoscerà quel Male e, al contrario, si sentirà vittima indiscussa delle circostanze.
Difficile recensire 139 pagine senza svelare nei dettagli la trama; ogni singola riga del racconto di Zlata al parroco è intrisa dell’egoismo e dell’avidità di questa donna. In russo il suo nome significa oro e lei si vede risplendere: bellissima, ammirata e desiderata dagli uomini, totalmente incapace di confrontarsi con la realtà. Moglie per forza, ferma il tempo del suo matrimonio, incorniciandolo dietro il ricordo di una camicia da notte strappata e macchiata di sangue. La stessa che conserva in un cassetto in attesa di donarla a una delle figlie — quasi fosse un trofeo — quando andrà in sposa.
Zlata giustifica le sue azioni facendosi scudo di una morale tutta sua, alterata dal Male che nasce e muore con lei. È una donna egoista; a suo modo sinceramente convita di avere sacrificato la sua vita per il bene dei figli, mentre si accompagnava a uomo che non la meritava e che, a suo dire, era un inetto. Una famiglia matriarcale, dunque– come ce ne sono state e ce ne sono –, ma l’influenza di Zlata è dispotica e castrante, tanto da costringere i suoi figli ad abbandonarla. Resterà sola con le sue convinzioni, rifiutando di riconoscere nelle scelte di vita dei suoi ragazzi il disperato tentativo di dissociarsi da lei.
Il ritmo della confessione è serrato, Zlata incalza il giovane parroco senza lasciargli modo di esprimersi, è sicura che da lui otterrà la tanto sospirata assoluzione; non la sfiora il sospetto di un giudizio di biasimo, nonostante il racconto delle sue azioni costringa l’uomo e il lettore all’ incredulità prima, poi all’indignazione. Il suo è un animo distorto dal pregiudizio, dalla superstizione e da una fede bigotta, ipocrita.
Zlata si racconta: è stata una figlia, una moglie e una madre esemplare. È stata anche un’amante, ma per il bene elargito non è mai stata ricompensata. Vive in un piccolo paese dove la gente è maligna — la invidiano perché è seducente e signorile, per la sua bella casa e le conoscenze importanti — e spende parole buone solo quando parla dei figli; giustificando sempre i loro fallimenti e le loro tendenze autodistruttive, accrescendo la sua fame di controllo maniacale e, di conseguenza, il loro senso d’inadeguatezza e di oppressione. Così, non è Male la piccola debolezza del figlio che spia le giovinette del paese e si tocca chiuso in bagno, e non lo è che lei spii lui dal buco della serratura con fare incestuoso. Non è Male avere imposto alla figlia il matrimonio perfetto, quello con un buon partito in grado di farla elevare nella scala sociale, garantendo di riflesso alla madre stima e ammirazione. Zlata crede di fare del bene anche quando sfoga il sesso col Nano — fratello del marito —, “per farlo crescere” ripete a se stessa. In realtà la preoccupa lo scandalo se si venisse a sapere dello storpio in paese e, aspetto non trascurabile, asseconda la sua lussuria. Chi è Zlata se non la brutta caricatura di molti uomini? Noi che, a vari livelli, operiamo il male predicando il bene, convinti di essere nel giusto contro ogni logica o morale?
Quando suo figlio perde la testa per una giovane di colore — “quella negra” come la chiama lei — Zlata si oppone con tutta se stessa.
«Avevo osservato troppe volte dalla finestra quelle mani giocare col filo del telefono, intrecciarlo e intrecciarlo, conoscevo a memoria l’alternanza di quelle mani fra i capelli a districare e intrecciare riccioli. A intricare mio figlio erano quelle mani che scorrevano leggere a massaggiare i piedi con un olio che chissà perché teneva nel cassetto sotto il telefono, e poi dai piedi alle gambe, dalle gambe alle cosce.»Quelle mani è un romanzo breve, duro, inquietante, a tratti intrigante; scritto in prima persona — quale sia il personaggio che prende la parola — porta il lettore a un confronto immediato — come se fosse lui il confessore di Zlata —, senza poter così evitare di venire sommerso dal flusso ininterrotto dei ricordi. Carmela Cammarata scrive di Zlata ma parla di noi e a noi, perché un po’ di cinismo appartiene a tutti.