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Recensione: REVENANT è un film enorme, e DiCaprio si merita l’Oscar

Creato il 20 gennaio 2016 da Luigilocatelli

12376033_1502186943410551_3663185884703666172_n12265948_1494807034148542_7583125401252472563_oRevenant – Redivivo, un film di Alejandro González Iñárritu. Sceneggiatira di Alejandro González Iñárritu e Mark L. Smith. Con Leonardo DiCaprio, Tom Hardy, Domhnall Gleeson, Lukas Haas, Will Poulter, Paul Anderson. Fotografia di Emanuel Lubezki.
12274404_1494802837482295_7001130544897207907_nSui social sono ormai legioni gli haters di questo film, di Iñarritu, del povero DiCaprio fino a ieri adorato e oggi svillaneggiato. Un linciaggio francamente incomprensibile. Perché questo è un gran film, altroché. Basta non equivocare e prenderlo per quello che non è, il solito western o adventure. The Revenant è una sacra rappresentazione, una via crucis assai ispanico-barocca, una cerimonia ipnotica del sangue e del sacrificio. Leo santo e martire. Dategli l’Oscar, per favore. Voto 8 e mezzo
12313519_1497066677255911_139377071601944094_n6196_1504760953153150_9195866749275280286_nTra i quindici film che Alejandro González Iñárritu ha selezionato per la Fondazione Prada di Milano – la rassegna si chiama Flesh, Mind and Spirit e va avanti fino a lunedì 1 febbraio – compare anche Aguirre furore di Dio di Werner Herzog. Capolavoro vero (Roger Ebert, un signore che di cinema capiva, l’aveva messo al primo posto della sua personale lista dei migliori film di ogni tempo) e manifesto programmatico del titanismo assai germanico del suo regista, della sua visione del cinema come esperienza al limite e sfida impossibile, come ordalia, come stress-test per corpo e psiche di attori, tecnici, autori. Che Iñárritu lo abbia indicato tra i suoi film di riferimento vorrà pur dire qualcosa e vedendo questo suo nuovo, memorabile The Revenant (scusate, ma preferisco il titolo originale con tanto di articolo determinativo, che non si capisce perché nella versione italiana l’abbiano piallato via) quel qualcosa lo si intuisce. Ecco, possiamo dire senza neanche forzare più di tanto che The Revenant è l’Aguirre (e il Fitzarraldo) di Iñárritu. Lo è per il gigantismo dell’impresa, per l’ambizione, per la volontà di saggiare i limiti di resistenza propri e altrui, per aver immerso se stesso, la troupe, gli attori a partire dal divo DiCaprio, in condizioni di lavoro estreme, neve, ghiaccio, temperature polari, posti inospitali a casa di Dio, in una messinscena in cui la finzione si modella sulla realtà e anzi la ingloba e ingoia (e viceversa). Sogno antico di certo cinema, questa ostinazione e ossessione a riprodurre-rappresentare il reale con il reale e non simulandolo, in una visione purista e rigorista secondo cui ogni finzione e artificio e trucco di regia è solo tradimento della verità, manipolazione, inganno, e in definitiva peccato (mentre, all’opposto, ci sono gli autori di un cinema inteso come puro artificio e gioco illusionistico, da Welles a Fellini). Non solo Herzog, in questa schiera di obsédé. C’è il Coppola di Apocalypse Now, c’è lo Josef Von Stroheim che faceva ammattire produzione e troupe pretendendo che tutto fosse massimamente credibile e autentico. Arrivando, sul set di Greed, a esigere un campanello che trillasse davvero benché il film fosse muto. The Revenant è solo l’ennesimo esempio di questa visione di cinema iper realista. Con vicissitudini sul set che ne hanno già costruito la leggenda. Anni di preparazione, un budget lievitato fino a 135 milioni di dollari, diserzioni di massa da parte di membri della troupe spaventati dalla durezza delle condizioni di lavoro (ma si dice anche che più che di dimissioni si sia trattato di licenziamenti), gli attori costretti a stare per settimane nella più estrema wilderness a temperature proibitive, il set spostato prima in Canada e poi, per mancanza di neve, in Argentina, shooting solo durante il giorno perché Iñárritu voleva che si girasse con la luce naturale (e il grande Lubezki, forse il miglior direttore della fotografia oggi su piazza, ne ha cavato qualcosa che sbalordisce per bellezza e aderenza al reale). Il risultato eccolo adesso al cinema, ed è un risultato enorme. Il regista di Birdman si è giocato tutto e ce l’ha fatta. Forse esagerando in retorica e magniloquenza, ma quando si mira molto alto il troppo può essere la giusta misura. Questo non è una storia di frontiera, non è un adventure classico, non è un western; se mai, Iñárritu usa e attraversa tutti questi generi per piegarli a sé, realizzando qualcosa di molto autoriale e personale. La (vera) storia del cacciatore di pelli Hugh Glass che si ritrova solo e morente nel mezzo di una natura ostile e che vuole a ogni costo sopravvivere per portare a termine la sua vendetta, in altre mani sarebbe diventato un epic e un colossal qualsiasi, magari appassionante ma qualsiasi, mentre con l’autore di Birdman si trasmuta in una passione, un calvario, una via crucis, in un solenne, ieratico attraversamento del regno dei (quasi) morti per poter tornare rinnovati e purificati nel regno dei vivi. Un tragitto religioso e mistico, con tutto quel repertorio di castighi del corpo, torture, piaghe, lacerazioni, flagellazioni, scorticamenti, sanguinamenti che ritroviamo nella più accesa e anche macabra delle tradizioni iberiche e ispanico-latinoamericane. Siamo in pieno barocco e The Revenant sotto le forme del film americano di frontiera costruisce una sacra rappresentazione della morte, del sangue e del sacrificio, con il corpo del suo protagonista sottoposto a ogni possibile prova di espiazione e redenzione. E, come nelle processioni e nei riti ispanici ma anche sud-italiani dei flagellanti, colui che sta al centro della cerimonia non può che infliggersi davvero quelle torture, ed ecco il povero Leo DiCaprio, Tom Hardy e tutti gli altri del cast (e della troupe) brutalizzati e costretti a combattere con la natura ostile, a scendere davvero in fiumi gelati e denudarsi sottozero. Scambiare The Revenant per un qualsiasi western è ridicolo e stolto. Lento? Certo che sì, perché scusate, avete mai visto una sacra rappresentazione con le accelerazioni e i movimenti ipercinetici di un action di Hong Kong? Iñárritu lavora assai consapevolmente sul tempo e la durata, rallentando per intensificare l’effetto ipnotico e costruire il senso del grandioso, del maestoso, e di una natura ora minacciosa ora amica ma sempre scrigno di forze occulte e forse oltreumane. Ed è incredibile come un film così estremo, così radicale, sia stato realizzato al centro dell’industria del cinema con un budget da film supereroistico e venduto sui mercati come un prodotto di genere e un vehicle per la sua superstar DiCaprio. Del resto, il regista di Birdman formalmente rispetta le convenzioni dell’avventura tra foreste, nevi, nativi americani e belve ferocissime. Con l’ormai mitologica sequenza dell’assalto dell’orsa al protagonista, che ne uscirà ridotto a poltiglia sanguinolenta e però ancora vivo. Ma il capo della spedizione di cui fa parte e di cui è la guida è costretta a abbandonare Hugh Glass, ordinando che a restare con lui siano due compagni, l’avido Fitzgerald e il giovane Bridger, e il figlio avuto da Glass con un’indiana. E però ecco la vigliaccata, il tradimento. Fitzgerald, un villain come non si vedeva da tempo e al quale l’anche qui eccellente Tom Hardy conferisce un che di demoniaco, molla Glass moribondo dopo avergli ucciso il figlio. Quel che segue è il calvario del povero cacciatore miracolosamente sopravvissuto, costretto a lottare in un ambiente impossibile e con la minaccia indiana sempre incombente, e qui sembra di rivedere la zattera dell’herzoghiano Aguirrre scorrere sul Rio delle Amazzoni mentre gli invisibili ma letali indios sulle rive aspettano di dare il definitivo assalto. Con la seconda grande sequenza, dopo l’attacco dell’orso, destinata a fare storia, quella di Hugh che per ripararsi da una tormenta uccide il suo cavallo, lo svuota delle interiora e si accuccia nella pancia in posizione fetale. Momento nel quale la cerimonia del sangue celebrata da Iñárritu giunge al suo acme parossistico, e gran momento di cinema. E vien da pensare ai molti fili e alle molte affinità che legano questo film enorme per impegno produttivo e visionarietà a quello che è invece il lavoro più appartato, nascosto, trascurato e anche più sottovalutato (soprattutto in Italia, mentre in America l’hanno apprezzato eccome, tanto da aver nominato all’Oscar il protagonista Javier Bardem) del regista messicano, vale a dire Biùtiful. Dove un Bardem corroso dalla malattia e dai sensi di colpa, marcio dentro e fuori, vomitante sangue ed essudante fluidi corporei, magro fino alla spettralità, ridotto a zombie deambulante per le vie di una Barcellona mai così tetra e pericolosa, consumava la sua personale passione percorrendo stazione dopo stazione una laica, ma dagli echi assai sacri, via crucis. Un martirio che già anticipava quello del revenant Hugh Glass e che già molto ci diceva di Iñárritu e del suo cinema. Stavolta sul corpo divistico e glamourizzato di Leonardo DiCaprio viene effettuata un’operazione altrettanto radicale. Reso irriconoscibile da una barba da profeta biblico o alla Solgenitsin o da eremita che si nutre di sterpi e vermi della terra, dimagrito fino a somigliare a un santo che si autoinfligge punizioni corporali (vedere per credere quando si ficca nudo nella pancia del cavallo), scorticato, lacerato, fatto a brandelli dalla natura e dai suoi nemici, Leo perde il suo corpo e ne acquista un altro, come uscendo da se stesso e reincarnandosi. Che è poi l’ingiuria massima che gli si poteva infliggere, quella di renderlo altro, non riconoscibile, di privarlo di ogni appiglio sexy, di brutalizzarlo fino a farlo diventare animale tra gli animale, e insieme un santo che ha trasceso la bassa natura umana. E dunque, massimo rispetto per lui che ha tutto accettato e a tutto si è piegato, e ha portato a casa un film che resterà e un’interpretazione potente. Vien da piangere o ridere a leggere certi pezzi cliccatissimi e molto condivisi dove si dà addosso al divo fino a ieri adorato – leggere i commenti spropositatamente entusiasti a The Wolf of Wall Street e alla sua performance – dipingendo quella di The Revenant come la sua prova peggiore e indegna dell’Oscar per cui è stato candidato. Storie. Quel che non gli si perdona è di aver sconciato e sfregiato la propria immagine e di essersi offerto alla macchina da presa e al suo pubblico globale privo di ogni patina di glamour. Ecce homo. Certo che gli haters – del film, di Iñárritu, di DiCaprio – stanno diventando su fb e Twitter legioni e si ingrossano ogni giorno di più, in un linciaggio di massa di massa lugubre come ogni linciaggio e rito sacrificale. Siamo nella fase melmosa, oscura, lutulenta dell’abbattimento da parte della plebe – oggi trasmutatasi nel popolo dei social – dell’idolo fino a ieri venerato, e adesso infranto e punito con cieco furore e sadico godimento. Eppure, incredibilmente, questo film così poco amato e tanto dileggiato sta realizzando incassi strepitosi (a oggi 155 milioni di dollari worldwide, e ci sono ancora davanti settimane di sfruttamento), a riprova di come la psicologia della folla resti ondivaga e contraddittoria. Quanto a DiCaprio, dategli l’Oscar, se lo merita.


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