Partiamo da un presupposto importantissimo: il cinema horror contemporaneo è quello dell'horror commerciale (non sempre binomio di bassa qualità), quello dei blockbuster e quello indi. In un certo senso chi pretende qualcosa di più è su quest'ultimo che si butta, perché i pochi mezzi vengono spesso sostituiti dall'importanza che acquisisce la storia: non si tratta per forza di voler essere originali, si tratta di osare. E di questi tempi osare può voler dire ripescare qualcosa di ormai "dimenticato". D'altra parte sarebbe anche stupido pensare che la storia sia più importante di come la si racconta, fesseria che è stata smentita nel corso degli anni.
Ok, fatti i dovuti preamboli, ora parliamo di The Banshee Chapter, film d'esordio di Blair Erickson del 2013 che circa un annetto fa ha fatto molto parlare di se, salutato come nuovo altissimo esempio di found footage. Castroneria assoluta probabilmente messa in giro da chi il film non lo aveva visto o ne aveva visto solo frammenti. Perché The Banshee Chapter, che in se ha anche una forte anima found footage, è un miscuglio di tanta roba diversa, un film a basso costo che predilige l'uso della camera a spalla e alterna al classico modo di girare video di repertorio, filmati ritrovati, pellicola in Super 8 e girato in stile grindohouse. Contaminazione già messa in atto nel 2012 dal film Sinister e qui portata all'esasperazione.
Parte tutto da un fatto di cronaca americana, il famoso programma Mk-Ultra che vide gli Stati Uniti sperimentare farmaci per il controllo mentale su ignari cittadini. Uno di quei momenti bui della storia U.S.A. che fa da base per il film di Erickson, in cui la giornalista Anne Roland comincia ad indagare sulla misteriosa scomparsa dell'amico scrittore James Hirsch dopo l'assunzione, da parte dell'uomo, della droga Dimetiltriptamina-19.
Che il regista fosse al proprio esordio salta subito all'occhio guardando The Banshee Chapter. Quella che infatti, anche da un punto di vista formale, sembra una confusa fusione di elementi, è in realtà il frutto di uno stile acerbo e di un'ovvia difficoltà di gestione. Il budget limitato, in questo caso, non ha aiutato, perché le tante idee e i tanti input narrativi portano ad una certa difficoltà realizzativa che non fa tornare i conti. Eppure, nonostante gli evidenti difetti strutturali e narrativi e nonostante quel che pensino e abbiano scritto gran parte dei blogger e della critica, The Banshee Chapter è un esordio coi fiocchi. Un esordio che, soprattutto, se ne sbatte di compiacere il pubblico con le classiche tematiche tanto in voga in questi anni e che fa qualcosa che in pochi hanno osato fare ultimamente: invece di guardare all'umano, al nostro pianeta, alle piccole cose che ci fanno sentire così al sicuro e che poi si rivelano un pericolo per la nostra esistenza, Erickson guarda all'Altrove, verso presenze inconoscibili che se ne sbattono di noi esseri umani finché non siamo noi stessi ad attirare la loro attenzione.
Ovviamente, quando parliamo di Altrove, parliamo di H. P. Lovecraft. E infatti The Banshee Chapter è un libero riadattamento di From Beyond, racconto del 1986 del solitario di Providence. Ora, inutile dire quanto sia difficile portare sul grande schermo Lovecraft. Ci hanno provato in tanti, in pochi ci sono riusciti (Gordon, Fulci, sua maestà Carpenter), in tantissimi hanno fatto la figura del babbeo. Erickson, stranamente, dimostra di sapere il fatto suo nonostante il suo film non sia tra i più riusciti. Piuttosto riesce a fare due cose che prima della visione non mi sarei mai aspettato: intrattenere senza il benché minimo calo di attenzione (o meglio, ogni volta che c'è un calo il regista assesta un bel colpo, magari ricorrendo a qualche trucco) e sviluppare un'atmosfera che non sfigura con quella della migliore letteratura lovecraftiana. Tutto questo perché non indugia mai sull'orrore visivo ma lo osserva con la coda dell'occhio, ponendosi nei confronti delle vicende narrate allo stesso modo in cui si pone la protagonista (interpretata da Katia Winter). Noi di fronte allo schermo infatti, scopriamo ciò che scopre Anne Roland durante il suo percorso nel film, fino al terribile finale che, per quanto confuso e prevedibile, io ho trovato terrorizzante.
In The Banshee Chapter c'è un po' di tutto: la componente thriller, l'horror sovrannaturale, i mostri e gli spaventi improvvisi, le cospirazioni governative e il fenomeno delle numbers stations. C'è un po' di Paranormal Activity o di Sinister, un po' di casa infestata, un po' di Fulci e di The Ring e una certa dose di fantascienza. C'è confusione, tra punti in sospeso e cose non chiare, ed è ovvio che alla fine non si sappia più dove andare a parare. Ma The Banshee Chapter è anche la prova di cosa contraddistingue un non-film da un prodotto cinematografico. Perché quella che avrebbe potuto essere una semplice macchina per gli spaventi prende vita attraverso movimenti di macchina veramente interessanti e, soprattutto, una storia che ha il pregio di essere interessante. E poi scusatemi, come non apprezzare un film che non solo si rifà a Lovecraft ma che lo ammette chiaramente ribadendo quanto questa sia una trasposizione non solo cinematografica ma socio-culturale. Se è vero che la realizzazione non è granché e i difetti sono tanti, bisogna ammettere che l'idea non solo è coraggiosa ma persino geniale. E se aggiungiamo che a me ha fatto anche paura (mi inquieta anche solo pensare alla musichetta, mentre ho imprecato per i buu improvvisi ma tutti funzionali), ecco svelato i motivi per cui promuovo questo film. Ah, poi c'è Ted Levine, l'unico attore che valga la pena per tutta la durata della pellicola.