The Pills – Sempre meglio che lavorare, un film di Luca Vecchi. Con Luca Vecchi, Matteo Corradini, Luigi Di Capua. Prodotto da Pietro Valsecchi.
Pietro Valsecchi, dopo i colpacci riusciti di Zalone e Soliti idioti, ci riprova scoprendo, producendo e lanciando in cinema The Pills, un trio di cui, confesso, niente sapevo prima di questo film. Dove si racconta di tre neotrentenni di Roma persi nel loro niente narcististico e nel loro fanigottismo. Per una ventina di minuti si ride di questi acidi selfies generazionali. Poi però nel film l’autoindulgenza prevale, e quando si tratta di passare alla costruzione di una storia è il disastro. Voto 5
Confesso, sì io confesso: mai saputo dell’esistenza del trio The Pills prima di questo film. Mai visto (le informazioni le traggo dal pressbook) il ‘magazine online Dudemag’ in cui s’è formato il primo nucleo della loro attività futura, mai vista la webserie (su Youtube, ovvio), mai saputo niente del loro programma Late Night with The Pills su Deejay Tv. Che volete, non ho mica l’età per fare il groupie di questi simpatici e cazzeggioni ragazzi e per stare incollato al pc (nel mio caso mac, dove pure sto incollato ma per altre faccende, comprese questo blog) a seguire avventure e disavventure dei nuovi comici self-made. Con tutto il rispetto, intendiamoci. Sono così giunto puro siccome un angelo (cit. Lando Buzzanca) all’incontro con Luca Vecchi, Matteo Corradini e Luigi Di Capua, i signori The Pills (o forse il pillolo è in origine solo Vecchi cui si sono aggiunti strada facendo gli altri, non ho capito bene). Con la curiosità di verificare se Pietro Valsecchi con la sua TaoDue – che ha prodotto questo Sempre meglio che lavorare – anche stavolta ci avesse visto giusto, e se avrebbe replicato il successo, che dico: il trionfo da vagonate di milionate di euro di Checco Zalone e pure I soliti idioti da lui scoperti, valorizzati, lanciati in cinema. Il miracolo però non si è ripetuto, The Pills al primo weekend di programmazione ha incassato 359.033 euro (dati Cinetel), che per gli standard di un Valsecchi-movie sono meno di niente. E dunque viene il dubbio che nella premiata macchina scopritrice di talenti grezzi da trasformare in superstar dell’italian comedy si sia inceppato qualcosa. Eppure, al di là del pessimo esito al botteghino, bisognerà riconoscere che questi The Pills non son mica da liquidare, che il loro talento ce l’hanno, e gli squarci che aprono sulla propria generazione di ragazzi appena arrivati ai trent’anni (e scioccati dal traguardo) sono nei migliori momenti un ritratto preciso di vizi e vezzi assai divertente e acido. Una tribù già ex giovane che idealmente e nella pratica non ha mai lasciato la cameretta adolescenziale e la cicorietta di mamma e fa fatica a involarsene là fuori nel mondo aperto e post-familiare, anzi non ne ha proprio voglia. Quanto questo peter-panismo soffocato e, nonostante le molte risate indotte, plumbeo e tristissimo appartenga solo ai tre personaggi e quanto invece alla loro generazione tutta, o almeno alla loro generazione così come si è forgiata in una certa Roma piccolo-medioborghese di consolidati riti domestici e cazzeggi nel gruppo dei pari, non saprei dire. Atteniamoci allora, senza sociologizzare e generalizzare indebitamente, a quanto vediamo passare sullo schermo. Che per i primi venti minuti-mezz’ora scorre via fluido e fa ridere anche fragorosamente. Ed ecco questi tre disgraziati e però non odiosi che stanno a cuccia nel loro fanigottismo e se ne stanno da mamma e babbo a farsi mantenere e non hanno nessuna intenzione di cercarsi un qualsiasi lavoro e costruirsi una vita per conto proprio. Tutto un ricordare nostalgicamente (e hanno sì e no trent’anni!) come eravamo da piccoli, e ti ricordi a scuola, e le prime seghe, e le prime ragazze, e le prime canne, giacché i nostri tre si conoscono fin da piccoli e non si son più persi di vista. Ognuno con le sue idiosincrasie e manie, le sue debolezze e i suoi feticci (la cultura pop piccolissima delle serie tv, dei manga, delle musichette e poi delle musiche più toste), e però al di là delle declinazioni personali la stessa attitudine arresa verso la vita. Che quando uno di loro si mette a cercare un lavoro, ad arrabattarsi, gli altri due pensano sia rinciulito e si sentono in dovere di intervenire per salvarlo da tanta perversione. Lavorare? giammai! Che, certo, per-i-giovani-è-difficile-e-il-lavoro-non-c’è, e però qui neanche si fa il minimo dello sforzo per provarci. Zero. Certo si ride con ‘sti tre disgraziati, ma si ride amarissimo e chi non è della loro generazione, e non può identificarsi con loro e non può sentirsi solidale, è molto tentato di vedere qusto film come la conferma definitiva dei propri pregiudizi verso i trentenni o giù di li. Per caso siete tra coloro convinti che questi ragazzi e i millennials tutti sono inoccupati non per via dell’epocale crisi e il declino italiano, per la concorrenza cinese e il maledetto euro, ma semplicemente perché son dei fancazzisti e non tengono voglia? The Pills fornisce purtroppo molte pezze d’appoggio a questa vostra orrendissima visione, a questo vostro inveterato pregiudizio. Per quanto mi riguarda, allontano subito ogni pensiero malevolo e mi dico e ripeto che il film non va giudicato per quanto ci dice o occulta sulla generazione zero o sottozero più o meno perduta. Per quello ci sono le inchieste tv, i talk show, le ricerche sul campo, i paper prodotti dai vari pensatoi e osservatori e centri studi e think tank, le colonne degli opinionisti ecc. ecc. Un film è un film è un film, e come tale va commentato. E allora: nella sua primissima parte The Pills – Sempre meglio che lavorare soddisfa e diverte. I guai cominciano quando i tre sono costretti, visto che devono mettere in piedi un film e dunque una sia pur minima narrazione, ad andare oltre gli sketchettoni – con al centro ora l’uno ora l’altro del trio – messi in fila. Ecco, quando da una struttura piatta dove i personaggi sono maschere fisse continuamente autoreplicanti si passa a una costruzione verticale e dinamica in cui i caratteri si devono muovere e dar vita a una trama, allora è semplicemente il disastro. Dal ritratto antropologico – ora feroce, ora troppo autoindulgente e autoassolutorio – di una certa tribù giovane-romana con i suoi riti e miti, i suoi codici e la sua lingua, si approda goffamente a una storiaccia in cui uno dei tre viene inghiottito dall’ossessione di lavorare finendo in una multinazionale bengalese (ma si può?) tanto somigliante a una setta di ossessi, con gli altri due che si mettono sulle sue tracce per liberarlo. Non bastasse tanta balordaggine, assistiamo pure a una sottotrama (quella con la ragazza conosciuta al party) in cui la dipendenza da lavoro è equiparata alla dipendenza da droghe, ed è la cosa peggiore e più imbarazzante che mi sia capitato di vedere ultimamente al cinema. Bene, questa seconda parte è inguardabile. Oltretutto con una escursione in una Milano dipinta secondo i peggio cliché, sempre gli stessi nel cinema romanocentrico da settant’anni a questa parte. The Pills è due film, prima una compilation di selfie ora critici ora eccessivamente narcisisti ma abbastanza centrati, poi una assai maldestra commedia grottesca con derive surreal-demenziali e paradossi selvaggi e maleducati alla Sacha Baron Cohen (e però, vorrei ma non posso). Disastro. Bisognerebbe dire a questi talentuosi giovanotti di smetterla di fare tutto da soli (anche se Luca Vecchi alla regia se la cava) e che magari sarebbe il caso di farsi sorvegliare e consigliare da un qualche saggio sceneggiatore. Quando Sergio Leone produsse il primo film di Carlo Verdone, Un sacco bello, gli affiancò in sede di soggetto-sceneggiatura il premiato duo Benvenuti-De Bernardi, e credo che Verdone un qualcosa di buono da loro abbia imparato. Vero, non ci son più i Benvenuti-De Bernardi e gli altri grandi della commedia all’italiana di una volta, però sant’Iddio qualcuno che conosca il mestiere trovatelo, magari nella generazione da rottamare. Ma a far precipitare definitivamente The Pills – Sempre meglio che lavorare è il tristissimo (almeno per me) finale, con quel ritorno alla cameretta di sempre all’ombra di mamma, senza che ci sia nei tre la minima autoironia o autocritica, il senso della sconfitta, la coscienza della resa. Solo la soddisfazione di averla scampata al mondo crudele là fuori. E allora sì che vengono i brividi.