Parlando di horror indi americano il primo nome che faccio spesso è Ti West. Un signor sconosciuto, uno che ha diretto però due tra le pellicole che ho trovato più spaventose e meglio riuscite degli ultimi anni: The House of the Devil e The Innkeepers. Quello che aveva preso in mano il progetto Cabin Fever 2: Spring Fever per poi abbandonarlo (in seguito ad attriti con la produzione) e lasciarlo andare alla deriva. Quello che si era accostato al found footage cercando di dargli una una "consacrazione" indipendente attraverso il manifesto antologico V/H/S senza però riuscire a lasciare il segno. Quel che ha fatto di veramente importante per la sua carriera, Ti West con V/H/S, è stato affiancarsi ad altre voci (e visioni) indipendenti americane, associando il proprio nome a personaggi come Brad Miska (l'attuale direttore della rivista/sito web Bloody Disgusting), Joe Swanberg ma, soprattutto, Adam Wingard ovvero il regista di You're Next. Da qui parte poi una sfilza di nomi tutti legati a filo doppio tra loro e potrei citare Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett (i registi de La Stirpe del Male), Simon Barrett (sceneggiatore e attore), Jason Eisener (di cui aspettiamo ancora un lungometraggio), Simon Rumley solo nel tentativo di fare qualche nome. In altre parole, i Mumblegore.
Parliamo quindi di un gruppetto che, lentamente, sta provando a conquistare un'importante fetta di mercato cercando, allo stesso tempo, di mantenere intatta la propria attitudine indi. Due cose difficili da fare già prese una alla volta, soprattutto quando parliamo di sfornare lavori di un certo livello qualitativo. Qualità che, fino ad ora, è sicuramente venuta a mancare e, mi dispiace dirlo, non troviamo nemmeno nell'ultimo lavoro di West, il tanto atteso The Sacrament presentato il 3 Settembre scorso al Festival di Venezia. Film in cui, quasi cercando di dare continuità formale al proprio lavoro, sceglie la strada del found footage e del mockumentary. Scelta che non è sbagliata di per se ma che si rivela catastrofica nel momento in cui West dimostra di abbandonare la propria continuità stilistica e tematica, dando vita ad un lavoro anonimo e assolutamente mediocre.
Ora, la colpa di chi è? Potrebbe essere di quel Eli Roth che figura come produttore esecutivo oppure di un cambio repentino nel cast tecnico. Potrebbe darsi che Ti West, provando a porsi in una determinata maniera rispetto al lavoro di colleghi/amici ma, soprattutto, del pubblico (americano), abbia deciso di giocare la carta dell'evento massmediale andando a raccontare una storia che, per quanto lontana negli anni, gode ancora una certa risonanza. Si tratta dell'eccidio di Jonestown, avvenuto il 18 novembre 1978 e in cui persero la vita 909 americani membri del Tempio del Popolo, una comunità agricola socio-religiosa fondata e guidata dal pastore Jim Jones. Ecco, appunto, avvenimento di una certa risonanza. Si sa che i film ispirati a storie vere, soprattutto se tragiche, ottengono un certo risalto. E, in questo caso, si tratta di una storia terribile in cui mai così tanti americani erano morti di morte violenta. Come dice Wikipedia "se si escludono disastri naturali e gli attentati dell'11 settembre 2001". Eppure Ti West cambia i nomi, cambia le dinamiche. Si capisce che è a quello che si riferisce, ma ovviamente non può farlo esplicitamente: di mockumentary si tratta e il mockumentary, per sua natura, è un falso "d'autore". Eppure l'argomento è delicato. Non solo perché, in fondo, di storia vera si tratta, ma soprattutto per il tema che va ad affrontare: le società settarie e i culti carismatici.
Ecco, un tema che ci può sembrare lontano ma che non lo è affatto. Primo, perché ha condizionato gran parte della storia del '900 europeo (la società di massa e le dittature, non altro che culti carismatici in larga scala), secondo perché è di un'attualità disarmante, basti pensare a Scientology o ad alcune situazioni politiche a noi non troppo lontane. In fondo un culto carismatico non può esistere senza un CAPO carismatico e senza una situazione socio-politica difficile: crisi economica, povertà, razzismo. Il culto della personalità lo viviamo ogni giorno, in scala ridotta, mostrando la nostra devozione nei confronti di personaggi più o meno noti, reali o immaginari, che la società massmedianica in cui viviamo ci sbatte in faccia ripetutamente. E di cui noi non possiamo determinare l'effettiva veridicità: è l'uomo o il personaggio ad essere così? Noi ne subiamo soltanto il fascino ipnotizzati dalla personalità (costruita o meno) del nostro beniamino. E intanto compriamo la maglietta di ..., la tazza di..., il poster di .... Volendo, quel che succede all'interno di una società settaria non è molto diverso: ci si inibisce di fronte ad una personalità forte, si attua una sorta di transfert su di lei, la si prende ad esempio o come possibile soluzione di problematiche sociali o personali che l'individuo si porta dietro. La si eleva. In suo nome si devolvono i propri averi, si desidera essere parte di quel che questa personalità sta costruendo, ci si riflette in lei e ci si chiude al resto del mondo che (in un certo senso) ci ha deluso cadendo in una rete non troppo diversa dal viral-marketing.
Il microcosmo della società settaria si sostituisce al macrocosmo in cui abbiamo vissuto fino a quel momento. Membri di una società settaria (più comunemente definita setta) sono i derelitti, i disoccupati, i sociopatici o chiunque viva le problematiche della società in cui vive. D'altra parte c'è chi necessità di un cambiamento nel proprio stile di vita e si affida a qualcuno o qualcosa che possa guidarlo e aiutarlo in questo. Uomini, donne e bambini che trovano nella figura del leader carismatico la risposta ai propri dubbi, la possibilità di perseguire un obbiettivo comune e più grande, la possibilità di trovare "un posto".
Tematica complessa, quindi. Ancora più complessa quando vediamo che i membri di queste sette sono portati a sacrificare tutto in nome del proprio "progetto" o del proprio leader: dai soldi alla libertà, dalla libertà alla ragionevolezza, dalla ragionevolezza alla vita. Ed è qui che sta uno dei "problemi" di un film come The Sacrament: affrontare un argomento tanto complesso in maniera tanto superficiale. Perché non c'è vera introspezione dei personaggi, tanto di quelli principali quanto di quelli secondari. Non c'è un'analisi delle cause e degli effetti. Sembra anzi che le cose avvengano semplicemente perché così sono avvenute, nella realtà. L'unica personalità ad "uscire" è proprio quella del predicatore, il Padre, cosa ovvia visto l'argomento trattato. Manca invece una contrapposizione a questo personaggio, manca la figura del (o dei) protagonisti. Se manca una contrapposizione ne risulta che manca anche il mordente. Manca una situazione che si capovolge perché si sa già che tutto andrà a finire nel modo in cui ci si aspetta. Probabilmente la colpa è della stessa tecnica utilizzata, il mockumentary. Che parte dalla fine, che ci si aspetta sia in una determinata maniera.
C'è da dire che Ti West lo eleva da un punto di vista tecnico e non è poco, eppure non basta. Perché la tecnica conta fino ad un certo punto proprio parlando di falso documentario. Un falso documentario con personaggi e storia senza spessore è destinato al fallimento. Che poi, tralasciando la storia, è proprio l'abilità di West nel delineare e "far uscire i suoi personaggi" quel che mi aveva fatto innamorare di lui. Claire di The Innkeepers e Samantha di The House of the Devil, nel corso del film, divenivano reali e questo non può negarlo nessuno, nemmeno i detrattori del regista. In The Sacrament tutti (tranne il Padre) sono appena abbozzati, distanti, per niente incisivi. E non è incisiva la storia, che scivola via, finta nonostante sia ispirata ad una storia vera (per quanto incredibile).
Per questo dico: non sembra di guardare un film di Ti West. Per nulla. Se non fosse per quella tecnica indiscutibile metterei in dubbio la reale paternità dell'opera. Perché se di buco nell'acqua si tratta, non possiamo comunque parlare di brutto film. Solo di film mediocre, che è peggio. Di film insulso. E allora speriamo che il nostro torni a fare quello che sa fare meglio e si distanzi da i Mumblegore, da Adam Wingard e da quel gruppetto di registi che qualcuno (che ne sa) ha definito fighettini. E speriamo che torni a raccontare storie e a far vivere personaggi. Di questo ha bisogno il cinema horror adesso, non di mockumentary e pellicole preconfezionate.