(recensione) THE WOLF OF WALL STREET: come un delirio cocainico

Creato il 25 gennaio 2014 da Luigilocatelli

The Wolf of Wall Street, un film di Martin Scorsese. Script di Terence Winter dal libro-biografia Il lupo di Wall Street di Jordan Belfort (Rizzoli). Con Leonardo DiCaprio, Jonah Hill, Margot Robbie, Matthew McConaughey, Kyle Chandler, Rob Reiner, Jon Bernthal, Jon Favreau, Jean Dujardin, Joanna Lumley, Christine Ebersole.Dalle pezze al culo ai milioni di dollari. L’irresistibile ascesa di Jordan Belfort, finanziere & truffatore, nei rombanti anni Ottanta dalle parti di Wall Street. Una lunga, orgiastica, sballata ballata di sesso, polvere, eccessi e vizi. Tre ore in cui Martin Scorsese dà prova di un virtuosismo registico da urlo. Esci stremato e divertito (poi però, inevitabilmente, arriva il down). Voto 8
Film enorme, anche per le tre ore e qualcosa (si poteva tagliare, altroché se si poteva). Per la solita maestria, il solito virtuosismo davvero oltremisura di Martin Scorsese, il più bravo di tutti a manovrare quella cosa che si chiama macchina da presa, come lui nessuno (si sapeva, certo, ma è sempre bello averne la conferma). Per gli appetiti eccessivi messi in scena e buttati lì all’ammasso a far da mattoni e calce, malta e cemento per la costruzione narrativa, e son voglie di sesso, di crapula e soprattutto di soldi, la madre di tutte le voglie, la voglia che a sua volta tutte le crea, le alimenta e le permette. Qualche americano l’ha paragonato al Satyricon di Fellini, in versione anni Ottanta e finanzieri cialtroni di Wall Street (ma più dei dintorni e cunicoli e sotterranei e sottoboschi, che del rinomato palazzone col toro davanti e la campanella dentro). Francamente, non mi pare che quella dolcevita di antichi viziosi romani c’entri gran che, innanzi tutto perché l’iper realista Scorsese non ha niente da spartire col fantastico e il visionario di F., e dunque tra i due film c’è un abisso stilistico e figurativo che le vaghe assonanze di materiale umano non bastano a riempire. Là i piaceri eran sempre lugubri, sozzi e degradanti, a significare la putrefazione di un intero mondo, di una cultura al capolinea, qui sono tutt’al più grossolani e volgarissimi, ma vitali, segno di uno status sociale raggiunto o sognato, di un apice, di una salita, mai di una caduta. Puttane di prima categoria (il Jordan Belfort finanziere protagonista del film fa la sua classificazione, ci son le puttane di primo, secondo e terzo livello, ed è una delle storie più divertenti tra le molte divertenti di TWOWS), yacht, coca a montagne e a cascate,  il vizio come lusso, ostentazione, sciupio vistoso per mandare a dire al mondo quanto si è potenti (no, non fighi, al finanziere Belfort non gliene frega niente di essere cool e di 0ttenere l’applauso della bella società, lui non è un novello Gatsby). Altro che décadence. Fellini faceva grandiosamente sprofondare il suo universo, Scorsese invece segue e asseconda le scosse telluriche che agitano il suo e registra l’emergere di isole, cordigliere, picchi mai visti prima, un nuovo panorama, un nuovo ordine e disordine sociale che si assesta e avanza. Film non altoborghese, non high class, ma basso, popolare, proletario, del proletario che vuol farsi borghese e ricco, film di parvenu, di nouveaux riches, di new money, di sbracati che non conoscono la buona creanza, barbari che conquistano il campidoglio, anzi credono di conquistarlo, perché poi ne verrano respinti e a vincere saranno sempre gli altri, l’old money, l’inossidabile élite. Davvero è un film, come si è scritto parecchio di qua e di là, che scansa ogni morale, si astiene da ogni approccio e valutazione etica? The Wolf of Wall Sreet come celebrazione dell’ebbrezza dei soldi e il suo godimento versus Il materiale umano di Virzì col suo lamentìo pauperista e il moraleggiare (che è altra cosa dalla morale) anticapitalista? Mah. La mia impressione è che Scorsese non si allontani troppo nemmeno qui – non se n’è mai allontanato davvero nella sua carriera – , dalle main streets degli inizi con i suoi malavitosi e i suoi preti, e le colpe, i peccati, la confessione, l’espiazione, la redenzione e anche il perdono, l’assoluzione, in una costellazione psichica sempre assai cattolico-romana e per nulla calvinista-protestante. Nonostante la maestosa, rutilante cerimonia del vizio cui ci fa assistere (e nulla ci viene risparmiato nell’ascesa e caduta esemplarissime dell’arricchito Jordan, coca e altri sballi, scopate singole, doppie e plurime, orge, masturbazioni coram populo, il resto dell’elenco riempitelo voi con quel che vi salta in mente, tanto nel film c’è di sicuro), la punizione lui la insinua nella parte finale. Mica vero che qui tutti godono e nessuno paga, si paga eccome, perché, se non è l’etica a presentare i conti, o il super io, c’è di sicuro la legge nella persona di un coriaceo agente Fbi. Piuttosto, questa grottesca ballata sballatona avviene – ci viene raccontata e mostrata – in una sorta di sospensione della coscienza, nel duplice senso di sospensione della consapevolezza di sè, della lucidità mentale, e della sentinella etica. The Wolf of Wall Street è uno strabordante delirio, una cavalcata selvaggia, il ritratto di una vita al massimo e massimamente sregolata e deragliata, colta nella fase dello scatenamento istintuale e dell’alterazione psichica da uso massiccio di droghe e da belluini autoconvincimenti di essere the best one. Un caso di hybris. Sì, certo, Jordan Belfort è l’ennesima incarnazione degli schumpeteriani animal spirits capitalistici, quelli che tendono alla soddisfazione di sè attraverso l’arricchimento e l’accumulo e risidegnano una mappa, un panorama sociale facendo sorgere il denaro, ma non è, per dire, Il petroliere magnificamente (e più lucidamente devo dire) descritto da Paul Thomas Anderson quale paradigma dell’imprenditore primario e primitivo. Jordan Belfort è – diciamola tutta, al di là dello sberluccichio con cui Scorsese cerca di confonderci e depistarci – uno sfigato, un poveraccio che si fa furbo tra i furbi, lupo tra i lupi e pensa di metterlo in culo al mondo, e sembra farcela, ma non ce la farà. Un avventuriero che si porta sempre dietro, anche all’apice della sua potenza economica e nel suo yacht con le zoccole più belle, la puzza del nessuno che era e che inesorabilmente resta, e che inesorabilmente tornerà a essere. I ricchi e potenti, i potenti veri, son fatti di un’altra pasta, pasta destinata a durare e a sopravvivere ai colpi del destino. Lui no, lui è un alienato, un fuori di testa, uno che ha mollato gli ormeggi con il reale e finisce col credere al mondo parallelo che si è creato e inventato, sicché quando qualcuno verrà brutalmente a svegliarlo saran dolori. Scambiare la parabola di Belfort come esemplare narrazione del turbocapitalismo finanziario rifondato negli anni Ottanta è ridicolo. Lui è un truffatore geniale, ma pur sempre un truffatore, destinato a essere smascherato. Il suo impero è costruito sul niente e nel niente sprofonderà. I suoi eccessi son quelli del plebeo che ce l’ha fatta a entrare per un po’ a palazzo e fa razzia di tutto quanto vede di sberluccicante, e mette le mani sotto le gonne dell serve e magari pure della padrona e delle di lei figlie. All’inizio vediamo il giovane Jordan con fisso in testa il sogno dei soldi infilarsi come broker a Wall Street, in tempo per ricevere una mirabile lezione di vita e di affari da un Matthew McConaughey semplicemente stratosferico (applausi signori, ecco il più grande attore in circolazione, e i suoi cinque minuti valgono tutto il DiCaprio, peraltro bravo, delle restanti tre ore). Solo che il primo giorno di borsa incappa nel peggior crollo dal ’29, l’agenzia di brokeraggio chiude, lui si ritrova senza lavoro. Riemergerà, risorgerà, fondando una sua agenzia che pompa soldi su soldi da risparmiatori allettati da guadagni grandiosi (il tintinnio degli zecchini d’oro non smette di sedurre centinaia di migliaia di Pinocchi) e piazza sul mercato titoli spazzatura. Finché il gioco tiene, sono dollari e dollari. Arriva la ricchezza, per lui e per i suoi fedeli compari, per la sua squadra che è nel frattempo diventata una tribù sempre pronta a celebrare con orgiastiche feste i successi e i quattrini raggiunti e a tributare all’indiscusso lider maximo la propria devozione. È qui che la deboscia raggiunge livelli parossistici, poiché a chi aveva le pezze al culo fino al giorno prima i soldi danno letteralmente alla testa, causando un big bang cognitivo, un deragliamento, e a far deflagrare ulteriormente le menti e le coscienze c’è poi l’abbondanza di cocaina  e di quello speciale ipnotico chiamato quaalude. Scorsese non registra, nemeno osserva, ancor meno giudica, semplicemente si situa all’esatto livello del suo personaggio (del suo eroe?), abolisce ogni giusta distanza tra sé e lui, tenta, riuscendoci, un’operazione mimetica totale adottando il punto di vista e di osservazione di Jordan, sciogliendosi e confondensosi in lui, nel suo corpo, nelle sue cellule cerebrali strafatte, nel suo sguardo soprattutto, cercando di rappresentare il mondo così come lui lo percepisce e lo plasma. Sarebbe ingenuo scambiare TWOWS per descrizione oggettiva e fattuale di Wall Street e delle balordaggini della finanza e della speculazione, esendo semmai una pura proiezione fantasmatica germogliata dai neuroni e dalle sinapsi alquanto deteriorati di Belfort. Un film tutto in soggettiva, e visto attraverso un soggetto alterato e alterante. Quella strepitosa soggettiva che si vede, più o meno al minuto venti del film, di un naso, di una cannuccia, che sniffa coca è il manifesto teorico di questo TWOWS. La macchina da presa guarda con l’occhio e i recettori alterati di Jordan, abdica alla lucidità dell’osservazione per confondersi nell’oggetto rappresentato e nel suo caos. Come faceva tra anni Sessanta e Settanta certo cinema che cercava di restituire le esperienze allucinogene di quel tempo, i trip, adottando un’estetica e un visione mimetiche di quelle sconnessioni e allucinazioni, penso a Chappaqua di Conrad Rooks o a More di Barbet Schroeder. Si spiega allora come The Wolf of Wall Street sia un film così arrembante, survoltato, iper energetico, tutto climax e picchi e senza mai un down, una pausa, uno sprofondare nell’inazione. A parte il finale, che fa caso e film a sè, la narrazione tutta è un apice parossistico, è un delirio cocainizzato, e anche l’inserto della famosa scena di Jordan strisciante e rantolante in preda a overdose da quaalude ha un che, pur nel suo rallentamento di ritmo, di allucinato e sovreccitato. Si resta intrappolati nella giostra messa in moto da Martin Scorsese, si seguono Jordan e i suoi come eroi di un videogame in cui, raggiunto un bersaglio, centrato un obiettivo, si va ancora pià e in là e più su, sempre più su. Ci si diverte molto, si ride molto, certo verso le due ore e passa un po’ di stanchezza si insinua in chi guarda, ma il gioco regge fino alla fine. A questo punto, dopo aver dato a Leonardo Di Caprio quel che gli spetta (performance pazzesca, ma non son riuscito a togliermi l’impressione che resti all’esterno del suo personaggio, forse perché il personaggio è quel che appare e fa vedere e non ha profondità), non resta che dire se The Wolf of Wall Street sia un grande film, e quanto grande, magari un capolavoro. Io gli do 8, abbacinato dal magistero di Scorsese, sul capolavoro ho qualche riserva. Temo che prima o poi, come succede alla fine di ogni viaggio di coscienza alterata, arrivi il down, e magari il rigetto. Aspettiamo un attimo.


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