Under Electric Clouds (Pod electricheskimi oblakami) di Alexey German Jr. Con Louis Franck, Merab Ninidze, Viktoriya Korotkova. Sezione Festa mobile.
Qualcuno lo dà per candidato all’Orso. Io son dell’idea che almeno quattro film gli siano superiori, ma se gli dessero un premio non sarebbe uno scandalo. Film degno e nobile, questo di Alexey German Jr., figlio non degenere di uno dei grandi fuori-rango del cinema russo, Alexey Yuryevich German, di cui s’era visto l’anno scorso, postumo, a Roma il capolavorissimo Hard To Be a God. Curato amorevolmente in fase di editing e post-produzione tutta proprio dal figlio Alexey. Che ora è qui in proprio, non all’ombra del padre, e ci dà uno dei film russi più poderosi e importanti dell’anno, il maggiore dopo Leviathan di Andrey Zvyagintsev, cui lo apparenta la materia trattata e narrata (la Russia nuova uscita dai processi lunghi e tortuosi della post-sovietizzazione), non certo il linguaggio cinematografico e la forma, agli antipodi rispetto a Zvyagintsev. Scandito in sette episodi, con personaggi che a volte passano dall’uno all’altro e si intersecano, a volte si perdono nella nebbia. Letteralmente. Perché questo film, a parte una sola sequenza girata in una luce nitida e fredda, è tutto avvolto dai vapori che fluttuano su una piana desolata da qualche parte della Russia, da cui emergono man mano i personaggi e le strutture, le cose. A partire dallo scheletro di un grattacielo rimaso incompiuto, sogno svanito di un costruttore che su quel titanico progetto aveva puntato ogni risorsa finendo col perderci tutto. Una folla si aggira intorno a quella torre, e non si può non pensare alla rampa dell’astronave – altrettanto metafisica – di Fellini Otto e mezzo. Del resto, i fellinismi e il metaforizzare e l’andare per simboli di tanto cinema anni Sessanta – italiano ma anche sovietico ed est-europeo – son tanti in Under Electric Clouds, e ne sono l’aspetto che meno convince, il più datato, il più cinematograficamente obsoleto. Si parte con un kirghizo, ex suddito del dissolto impero sovietico, perso in qualle landa desolata, si prosegue in un immediato futuro, nel 2017, con il figlio e la figlia del costruttore fallito tornati in patria a sistemare la difficile eredità, a misurarsi con il sogno e lo smacco di un padre che troppo ha osato. La casa di famiglia, già meravigliosa, è fatiscente, la ragazza vuole restare e conservare la memoria paterna, il ragazzo invece non vede l’ora di scappare a New York. Un professore di lingue orientali è costretto, in divisa da ussaro, a far da guida a turisti giapponesi. Sa che l’istituto in cui ha lavorato sta per essere ristrutturato, ovverossia finirà delle mani dei voraci speculatori del nuovo potere. Una ragazzina viene rapita da una banda mafiosa. Le storie si sommano, si intrecciano, fornendo il quadro impietoso di una nuova Russia dove il passato si sta dissolvendo, il culto del bello lascia il posto alla voracità collettiva, la violenza stabilisce le sue leggi. Con sequenze che non si dimenticano. Ma l’eccessivo carico simbolico e metaforico finisce con lo zavorrare un film potenzialmente assai rilevante. E quella sagoma di cavallo trainato, nella nebbia naturalmente, dalla figlia del visionario costruttore e dalla bambina è un poeticismo oggi difficilmente digeribile. Con i finali della Dolce vita e di Otto e mezzo evocati qua e là. Manca solo la musica di Nino Rota.