Recensione: TORNERANNO I PRATI di Ermanno Olmi. Una delusione, purtroppo

Creato il 06 novembre 2014 da Luigilocatelli

Torneranno i prati, un film di Ermanno Olmi. Con Claudio Santamaria, Alessandro Sperduti, Francesco Formichetti, Andrea di Maria, Camillo Grassi, Niccolò Senni.
Olmi torna al cinema con un film sulla prima guerra mondiale vista attraverso il microcosmo di un pugno di soldati stretti in trincea-avamposto d’alta quota. Fame, freddo, malattie. Ordini assurdi e criminali degli alti comandi. Se il senso di Olmi per i paesaggi alpini sa darci momenti folgoranti, il resto della narrazione non si sottare al troppo visto e sentito. Voto 5
Non bastano le buone intenzione a fare un buon film. Non basta che alla regia ci sia un maestro del cinema per fare un buon film. Ermanno Olmi è un grande di quelli veri, ed è superfluo ricordare i suoi meriti e tutto quello che di bello e anche meraviglioso ci ha dato. Però si potrà dire che questo suo Torneranno i prati è una delusione forte? Che, almeno per quanto mi riguarda, resta parecchio al di sotto delle aspettative?
Sono cent’anni che è scoppiata la grande guerra (anche se l’Italia, val la pena sottolinearlo, ci entra un anno dopo, nel 1915) e il cinema partecipa e dà il suo contributo alla rievocazione. Anche Olmi lo fa, portandoci con Torneranno i prati nel 1917 in un trincea d’alta montagna da una qualche parte del fronte italiano nord-orientale, in un avamposto oltre il quale sembra esserci solo il niente e invece, nascosto sotto la neve o nella foresta di abeti o in qualche anfratto, ci sta il nemico. Che spara, lancia granate o, peggio, colpi di mortaio. Invisibile e letale. La solitudine del pugno di soldati scagliati in quel vuoto mortifero, il silenzio teso pronto a materializzarsi in uno scoppio, il nero della notte illumionato dai bengala. Ecco, quando il film ci racconta questo, quando ci restituisce la sospensione e l’attesa, è semplicemente magnifico. Ma sono passaggi soltanto, purtroppo. Non ce la fa convincere invece quando la narrazione si sposta all’interno della trincea. I soldati che parlano lingue così diverse, venuti da ogni parte d’Italia e non ancora nazione, e forzatamente costretti a diventarlo sotto l’urto della guerra. Gli ordini insensati che arivano dagli alti comandi. Le malattie, il freddo, la fame, gli stenti che ammazzano come e più degli austriaci. Il rito della distribuzioine della posta. I ricordi della casa, del paese, degli affetti lasciati. C’è tutto questo, nel film di Olmi, e però molto si era già visto anche in film come Orizzonti di gloria di Kubrick o Uomini contro di Francesco Rosi, e stavolta si ha l’impressione di un modello riapplicato e replicato senza troppe variazioni. Un maggiore in visita (è Claudio Santamaria), un tenente disilluso e febbricitante, un tenentino di fresca nomina che di lì a poco sarà costretto, pur nella sua inesperienza, a prendere il comando di quegli uomini. Questa la scena, questi i personaggi di Torneranno i prati. Arriva l’ordine criminale e insensato da parte degli alti comandi di impossessarsi di una roccia distante pochi metri dalla trincea per installarci un nuovo collegamento telefonico. Solo che là nella neve ci sono i cecchini, e  quando i militari buttati allo sbaraglio escono dalla trincea vengono fulminati. Finché uno, pur di non sottostare a quell’ordine, si uccide sparandosi alla gola. Episodio tratto dal racconto La paura di Federico De Roberto il quale, curiosamente, ha ispirato anche il frammento italiano, quello diretto da Leonardo Di Costanzo, del film collettivo – registi da ogni parte d’Europa – Les ponts de Sarajevo presentato lo scorso maggio fuori concorso al Festival di Cannes. Mi chiedo: era proprio il caso? Che vedendomi quella sequenza ho fatto un sobbalzo e ho pensato a una coincidenza, solo che i credits finali rinviano a De Roberto, e dunque non ci sono dubbi, è proprio quella la fonte, come per Di Costanzo. Olmi però aggiunge altro e di suo, pescando anche dalle memorie di famiglia, dai racconti del padre che la la ’15-18 l’aveva fatta.
Naturalmente la narrazione adottata è quella dominante e consolidata della guerra come macchina omicida mossa dai potenti ai danni delle masse usate come carne da macello. Tutto vero, come no. Però trattasi di una narrazione ormai logorata dal troppo uso e così carica di retorica da non incidere più sulle nostre coscienze, rischiando paradossalemnte di assopirle anziché ridestarle. Una sacrosanta verità ridotta a idée reçue, a luogo comune, a cliché e come depotenziata. I personaggi di questo film non ce la fanno mai a assumere vita porpria finendo con il somigliare a manichini portatori di messaggi e intenzioni didascaliche, se non addirittura predicatorie ed edificanti. Purtroppo il linguaggio adottato, che vorrebbe mimare la realtà e riprodurre fedelmente i modi verbali del popolo, suona improbabile e artificioso, e noin ci vengono risparmiate sentenziosità. Ma il problema vero è che un racconto robusto non c’è. A un certo punto arriva l’ordine di lasciare l’avamposto, di ritirarsi (forse per lo sfondamento nemico a Caporetto?), e di quei soldati, quelli sopravvissuti all’attacco nemico, non sappiamo più niente. Li perdiamo di vista. Olmi ci mostra invece filmati della guerra e poi della vittoria. Ma è un finale-non finale incongruo di cui si fatica a capire il perché. Resta di bello, in Torneranno i prati, quel pugno di uomini immersi nel vuoto e nel bianco dei panorami alpini. A conferma dello speciale senso per la montagna mostrato da Ermanno Olmi fin dal remoto Il tempo si è fermato, anno 1958. (Dopo questo film mi è venuta voglia di leggermi Nelle tempeste d’acciaio, la prima guerra mondiale secondo l’anarca Ernst Jünger).


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