Mike Leigh
Uno dei molti bei film presentati allo scorso Cannes, un’edizione, a pensarcy adesso, da urlo. Con cose come Winter Sleep, Mommy, Leviathan, Foxcatcher, Deux jours une nuit, Sain Laurent, Adieu au language, Storie pazzesche. E questo Turner del venerato e consacrato maestro Mike Leigh, già Palma d’oro a suo tempo con Segreti e bugie e Leone d’oro a Venezia con Vera Drake. Flm prevedibilmente bello e assai ben fatto, dove ogni inquadratura porta impresso l’inconfondibile Leigh-touch, quella capacità tutta sua di darci la sensazione della vita colta nel suo farsi, di farcene percepire il respiro. Non c’è un momento, non c’è una sequenza che non siano di massima credibilità e naturalezza, nel suo cinema e anche in questo film, che pure è in costume (il suo secondo dopo Tupsy-Turvy) e dunque a rischio di artificiosità. Dialoghi da tramandare a futura memoria e da far leggere e rileggere nelle scuole di cinema a ogni aspirante autore, specie italiano. Penso solo alla scena da urlo di Turner con lo squattrinato collega Haydon che gli chiede un prestito di 50 sterline (non concesse), cinque minuti sul niente condotti con virtuosistica maestria di scrittura. O al ricevimento in casa Ruskin, sì, il critico d’arte, ancora assai giovane e antipaticissimo enfant prodige molto petulante e spocchioso. Perché stavolta Mike Leigh applica il suo talento per raccontarci la vita, molto quotidiana e senza picchi e senza snodi particolarmente melodrammatici, di William Turner, il gran pittore-paesaggista dell’Ottocento inglese che genialmente, nelle sue tele tutte luce e foschie, già prefigura l’impressionismo e perfino l’astrazione. Genio inconsapevole, ovvio. Genio che risiedeva in un uomo all’apparenza assai qualunque, perfino rozza, così almeno ce lo fa vedere e racconta il regista. Come se Leigh si divertisse a ricordarci che l’arte è cosa terrena e non celeste, è prodotta dall’ammasso di materiali poveri e ordinari, può provenire da gente ordinaria, può svilupparsi in vite qualsiasi. L’abiura del luogo comune genio e sregolatezza. Il suo mister Turner bofonchia, mugugna, grugnisce, e più invecchia e più grugnisce. Non ha il fisico di quello baciato dalle muse e posseduto dal demone creativo, sembra un birraio, un macellaio, un vetturino di quella caotica, brulicante e anche un po’ sozza e puzzolente Londra di primo Ottocento. Chiaro che è questa la strategia scelta da Mike Leigh, per schivare ogni pompierismo e pomposità, per farsi beffe di ogni discorso sull’Arte come categoria del Sublime, e sugli Artisti come creature speciali. Non ci fa nemmeno vedere molte opere di Turner e preferisce mostrarcelo al lavoro, sempre assai terragno e concreto, lontano dai raptus creativi dei cliché romantici, e semmai in preda a una visionarietà che ha a fare più con la stramberia, con quell’eccentricità che percorre da sempre come un fiume sotterraneo la britannicità. Spesso è in viaggio, in cerca dei suoi adorati paesaggi marini tra costa inglese e coste belghe e francesi. Con una serva-amante brutta e devota, che lui ogni tanto brutalmente possiede, e che gli sarà fedele fino all’ultimo minuto. Le scene d’amore non son d’amore, ma di sesso spiccio, sia con la serva che con la vedova con cui poi Turner finirà con l’accasarsi e trovare un po’ di tranquillità. Non assistiamo, come vorrebbe lo sterotipo, al grande artista incompreso e dunque sofferente. Turner è molto compreso, le sue tele stanno nelle migliori magioni, è di sicuro agiato, se non ricco, e rifiuta l’offerta di un ammiratore disposto a comprare tutte le tele che ha in atelier per una cifra smodata. L’uomo qualunque Turner però ha certe deviazioni dalla medietà, dalla norma sociale, come l’odio per la ex moglie e il disinteresse per le due figlie e i nipotini, e quando una morirà non andrà nemmeno al funerale. Leigh lo affonda in paesaggi urbani e extraurbani, soprattutto marini, o in interni domestici che farebbero felice un antropologo per la loro ricchezza di dettagli, o un esperto della cosiddetta storia materiale. Molto cibo, e teste di maiale considerate il massimo della succulenza. E poi i colori e le sostanze spesso strane che danno loro vita. Un film dove vedi, senti, ma anche tocchi e annusi, agli antipodi dei biopic sugli artisti di marca classico-hollywoodiana. L’arte rimessa coi piedi per terra, eppure, o proprio per quello, l’immensità di Turner e la sua carica profetica vengono fuori con prepotenza. Turner è come quei grandi quadri brulicanti di cose e persone di cui fatichi a individuare gli assi portanti, il fuoco narrativo. Apprendiamo molto del gran pittore, un pulviscolo di fatti e fatterelli, ma l’impressione è che ci sfugga il personaggio, che manchi la vera, grande narrazione, che Mike Leigh abbia disperso la propria formidabile capacità di raccontare in mille rivoli senza concentrarla su un flusso deciso. Il film dura la bellezza di due ore e mezza, ma potrebbe durarne altre cinque nel suo ritmo flemmatico e nel suo incessante accumulare dettagli e, a parte la nostra resistenza fisica che a un certo punto verrebbe meno, non cambiarebbe granché. Avevo avuto la stessa impressione dal precedente Another Year, storie e micro frammenti che si danno, e non ci danno mai un percorso, e la sensazione alla fine – allora e stavolta – è quella del non-movimento, o di un movimento circolare che ti riporta inesorabilmente al punto di partenza. Sicché Turner un bel po’ di insoddisfazione la lascia.