Autore: Massimo Spadetto
Editore: Enjoy Edizioni
Anno: 2013
ISBN: 9788868820435
Lingua: italiana
Numero pagine: 304
Prezzo: € 14,00
Voto:
Contenuto: Un viaggio bizzarro, una sorta di tuffo negli errori umani, quelli che costantemente vengono commessi, e spesso reiterati, in una specie di giostra degli orrori. Un Virgilio d’eccezione, chiamato Goodfather parafrasando il godfather coppoliano, guida il protagonista in un tour, alla ricerca della propria libera posizione nel Mondo. Questo romanzo, considerato anche la continuazione de “Il Grande Mazziere”, porta il lettore nelle “stanze” di Max per scoprirne la sua vera essenza. Una piccola, minuscola Divina Commedia in chiave moderna; citazioni e pensieri di saggi senza tempo e musica di ogni tempo accompagnano Max che si porta dietro anche il più pesante dei fardelli: la sua Libertà.
[Dal retrocopertina]: Facciamo le voci fuori dal coro. Quelli che urlano nel deserto. O che sottovoce incidono Verità sulla pietra. Siamo i sogni che lasciano ricordi nelle coscienze di chi si sveglia. Siamo le parole dette, le immagini mostrate che nessuno potrà mai più far finta di non aver visto. E molto di più. Siamo la speranza.
Recensione: Tutto il peso della Libertà esce dopo Il grande Mazziere. Come ha chiarito l’autore in diverse presentazioni cui ho assistito, pur essendo l’uno il sequel dell’altro, si tratta di romanzi disgiunti, leggibili autonomamente, non necessariamente in ordine cronologico. Sono entrambi prodotto della fantasia, tuttavia è difficile pensare a una storia più concreta e reale.
Max Drugo, il protagonista, per certi versi rispecchia l’autore. Direi che nessuno dei due si muove sul terreno dell’immaginazione pura, del sogno, ma su quello concreto delle possibilità. Le quali consentono di attribuire un significato inaspettato alle carte che si tengono in mano, e di giocare, con coraggio, la propria partita personale. Max Drugo compie un viaggio piuttosto impegnativo, il cui risultato non è per nulla scontato. Riesce, di traversia in traversia, a emanciparsi da fardelli pesanti e prevaricatori, guadagna – ma a quale prezzo? – la sua libertà. Conquista una leggerezza che assume un altro tipo di consistenza, ha ben altro peso, rilievo.
Sul titolo si potrebbe giocare molto. Qual è il peso della libertà?
Forse è quello da cui si fugge costruendosi intorno una gabbia. È il peso della responsabilità di una decisione che può portare a un errore, a volte irrimediabile, e tale che non si possa tornare indietro. È la paura di essere chiamati in causa, di dover pagare un prezzo. La libertà ti libera dal peso di cose superflue, ma l’assenza di quelle cose è di per sé un peso insostenibile.
Il tutto potrebbe spiegarsi ricorrendo agli elementi che riassumono il celebre ma non semplice romanzo di Kundera, L’insostenibile leggerezza dell’essere (che a suo tempo abbiamo esaminato qui):
- la realtà che preme col suo peso
- la leggerezza di chi se ne allontana
- “la ritrovata pesantezza di chi, tendendo continuamente verso l’alto, deve aspettarsi di essere colto dalla vertigine”.
Ebbene si tratta di elementi in qualche modo presenti nei due romanzi di Massimo Spadetto.
Il primo punto sta alla base de Il grande Mazziere, di fatto primo gradino del viaggio intrapreso da Max Drugo. In esso trapela un’importante intuizione: il sospetto che vi sia, da qualche parte, una presenza che mischia e distribuisce le carte, e che alla fine soppesi e giudichi le mani giocate o lasciate cadere. Max ha intravisto il disegno di un autore inafferrabile, invisibile fino a un certo punto. Vestito da Sherlock Holmes, chiunque ne potrebbe seguire le tracce. Nel Grande Mazziere Max si muove tra due poli se non tra due anime, tra un certo modo di stare al mondo (la Milano dei suoi enormi palazzi, punto nevralgico dell’economia e della finanza) e la percezione di una dimensione più intima, profonda e segreta (rappresentata da Bologna, centro artistico e culturale, luogo d’incanto e di passione). Max ha tutti gli strumenti per prendere coscienza di alcune cose, soprattutto della realtà che preme col suo peso, della leggerezza che si prova nel liberarsi da essa, una volta pagato il prezzo richiesto (se non, addirittura, il fio).
Il Grande Mazziere racconta la storia di un viaggio che porterà Max ad abbandonare Milano e Bologna, verso una terra inospitale e sorprendente al tempo stesso: la Patagonia (e la città più australe del mondo: Ushuaia), ritratto di un’anima, di uno spirito in fuga e in cerca di sé.
In Tutto il peso della Libertà Max Drugo è, di fatto, colto dalla vertigine, o da qualcosa che ci somiglia. Desidera visitare la realtà che si è lasciato alle spalle. Un nuovo Max torna a riscoprire la sua Milano e la sua Bologna con uno spirito rinnovato, forgiato dalla Terra del Fuoco. Ha definitivamente appreso la sua missione, ha scoperto dentro di sé un talento non mercificabile, perché invisibile e impalpabile. Nessuno può più fargli del male, o intrappolarlo in una nuova gabbia. E non c’è ricatto, o tentativo di corruzione che tenga (chi leggerà, vedrà).
Ha trovato dentro di sé e nel mondo un’altra misura, un diverso ordine nelle cose. Insomma: ciò che ha capito ne il Grande Mazziere, in Tutto il peso della Libertà trova il suo coronamento, viene messo in pratica.
Si narra di un ritorno che non tarda a dare i suoi frutti. Ad aprirgli definitivamente gli occhi sono, nell’insieme, situazioni, persone (Cisco, Nora, Alvaro) luoghi (Ushuaia, Milano, Bologna), il tutto condito da insperate risorse personali:
Non c’è posto migliore al mondo di quello che è dentro noi stessi.
Egli stesso li aprirà ad altri (Stefano – il suo capo – Gioacchino), offrendo a ciascuno una carta nuova nel mazzo, così come qualcuno l’ha offerta a lui. Altri, invero, succubi della loro gabbia dorata, lo ignoreranno, non abbandoneranno il loro inferno.
È in questo frangente che assume il suo significato quanto scritto sul risvolto di copertina: di fatto Tutto il peso della Libertà, è una minuscola Divina Commedia in chiave moderna. Max Drugo torna a visitare una realtà che conosce bene, nella quale è cresciuto e dalla quale è riuscito a distanziarsi. Riscopre veri e propri gironi infernali, osserva da fuori l’inferno degli altri, non ne è (più) invischiato. Un po’ come Dante che, esule, visita l’inferno (la sua Firenze) senza abitarlo(a), con emozioni di per sé contrastanti tra lo sdegno e la nostalgia.
Ho indugiato troppo, forse, su due accostamenti azzardati. Ma la colpa è di Kundera e Dante che, nel loro grande, hanno parlato di universali e di archetipi che si fanno specchio dell’uomo occidentale. Massimo Spadetto, nel suo piccolo, non ha fatto altro che riprenderli, magari inconsciamente. E noi con loro cogliamo perfettamente la drammaticità di questo viaggio al contrario, di questo ritorno, addolcito da un finale che… è sì un finale, ma non si sa mai.