Trama: Trent'anni. Trent'anni di storia americana, trent'anni di sogni e aspirazioni. Di amori, di voli e di cadute. "Un giorno verrò a lanciare sassi alla tua finestra" è l'epopea cruda, fantastica, umanissima di sei diverse giovinezze, sei modi d'intendere la vita coi suoi dolorosi passaggi epocali. Michael e Jane, Francis e Zelda, Edward e Ginger: storie di incontri e di distacchi, di solitudini forzate che, dal New Jersey degli anni settanta, arrivano a sfiorare la purezza sporca della Manhattan anni novanta. La pop art, la contestazione, la scena punk e il sogno illusorio di una ribellione possibile.
L'autrice:
Claudia Durastanti è nata a Brooklyn nel 1984. Il suo primo romanzo, Un giorno verrò a lanciare sassi alla tua finestra (Marsilio 2010) ha vinto il Premio Mondello Giovani, il Premio Castiglioncello Opera Prima, ed è stato finalista al Premio John Fante. Scrive su «Indieforbunnies» e sul «Mucchio», dove si occupa prevalentemente di cultura pop. Vive a Londra.Recensione:"È una cosa che non ho mai sopportato, i tempi lenti e forzati che gli adulti usano come arma pedagogica per costringerti a capitolare e a umiliarti davanti a loro. Come se il valore delle tue scelte o delle tue idee fosse proporzionale alla quantità di merda che sei disposto a ingoiare per difenderle. "
Michael segue il proprio istinto, abbandona la facoltà di sociologia alla Columbia University (scelta completamente a caso), per iscriversi alla School of Visual Arts. La sua rabbia si intreccia al suo talento e alla sua necessità di sputarlo fuori. Anche Jane Cormick, di Freehold, Contea di Monmouth, prende la parola un paio di settimane prima di partire per frequentare giornalismo alla New York University. Non è una giovane di belle speranze, per quanto stia per iniziare una nuova vita. Il suo è il disincanto di chi vuole andare avanti nella vita, sapendo di essere diverso dagli altri, sempre un po’ troppo indietro, o un po’ troppo avanti, mai allo stesso passo di marcia del gruppo. Quando la sua vita s’incontra e si sfibra contro quella di Michael, è l’autrice che si riprende parola e filo narrativo, per incastonare i due ragazzi dritti all’interno delle pieghe più multicolori e meno pulite del grembo di New York. La sua è una macchina da presa, che allarga la prospettiva e ci fa arrivare suoni, rumori, zaffate, odori della vita meno “politcally correct” della Mela del Mondo. Ritorna a tacere e si fa da parte quando, diciotto anni dopo, è la volta di una coppia che si è cambiata il nome: Francis (Jonathan Cale) e Zelda (Dana Fogarty), da Newark. E’ lei che sceglie di cambiare i loro nomi, per ritornare all’epoca dell’amore ai tempi del jazz, ispirandosi al Grande Gatsby di Fitzgerald. Ma niente lustrini e dolce vita per questi innamorati che stanno insieme, ma non comunicano, hanno gesti di vicinanza, ma non ne parlano. Potrebbero dirsi delle cose, confortarsi con la presenza l’uno dell’altro, ma scelgono di pronunciare altre parole, formando frasi che non hanno senso con quello che vivono, e che comunicano un grande senso di solitudine e inadeguatezza di fronte alla vita.Lui vide scorrere le immagini, e pensò una serie di cose che non disse ad alta voce.Per esempio: tu sei il pianoforte inabissato che mi porto dentro al cuore.Per esempio: tu sei il battito mancato che potrebbe farmi saltare in aria.Aveva smesso di scriversi le frasi col pennarello sulla testa, si era rasato anche la parte destra trasformando l’asimmetria dei suoi capelli in una cresta e aveva iniziato a lavarsi perché dopo il lavoro era inevitabile. Restava comunque lontano dalla normalità in modo accettabile. Certe volte si sentiva come sommerso dalla densità del posto, e cercava di non lasciarsi sfuggire niente. Gli piaceva trovarsi in un luogo palesemente senza aspettative, in cui non c’era nessuna aspirazione al miglioramento, la grande maledizione del sogno americano che ossessionava chiunque avesse meno di sessant’anni. L’etica del lavoro, della posizione individuale: sei tanto più onesto quanto più lavori, sei tanto più fico quanto più dimostri di avere fame di successo. Quanto più sei capace di sbranare tutto, di avere sempre qualcosa da dire, di maturare una posizione. E poi c’erano quelli a cui non gliene fregava niente. Niente alternativi a Lamesa, niente rivoluzionari. Il lavoro come strumento per trascorrere le giornate, senza la presunzione di dare loro un significato; il lavoro come qualcosa che ti permette di guadagnare il necessario per mangiare.
Gli anni scorrono verso il 2003, che conclude le vicende dei protagonisti su una lettera di Michael, il personaggio che apre e chiude il cerchio narrativo. La rabbia e l’incomprensione dei personaggi da giovani si sono un po’ acquietate. Niente più slanci eclatanti, impulsi di autocelebrazione e di autopunizione. E’ subentrata la stabilità dei trenta-quarant’anni, ma questo non significa necessariamente un miglioramento o un frettoloso “il passato è passato”. Ognuno a suo modo si volta all’indietro e capisce un po’ meglio il baratro della propria vita, per quanto con tristezza e una certa rassegnazione dovuta all’aver perso una serie di occasioni una dietro l’altra. Non sono opportunità lavorative: sono quelle possibilità che la vita offre di essere vissuta e goduta senza rinchiudersi negli assolutismi e nel rifiuto cieco. Sono valide per un certo periodo di tempo, ma se non vengono colte, scadono e non sono rinnovabili. Chiudendo il libro, permane tuttavia la sensazione che forse c’è ancora un residuo di occasione, ma è talmente leggero e sullo sfondo da essere quasi indistinguibile.Voto: