Titolo: Un’opera dalle molte pretese
Autore: Cortese Massimo
Editore: Montag
Collana: Le Fenici
Pagine: 63
Prezzo: € 10,00
Edizione: brossura
Voto:
Un’opera dalle molte pretese è il terzo volume che conclude la Trilogia della Speranza di Massimo Cortese, con il ritorno ad un’autobiografia mai completamente abbandonata, quasi complementare alle esigenze letterarie dell’autore. Definire le opere di Cortese è sempre un po’ complicato, e anche questa volta l’esplicitazione di un genere non incontra facile soluzione: Un’opera dalle molte pretese si barcamena tra il racconto –sempre in prima persona- dell’esperienza dell’uscita del primo libro dell’autore, Candidato a consiglio d’istituto, e la citazione in giudizio di Cortese a seguito di alcuni disguidi burocratici. Il parallelo svolgersi delle vicende –autobiografiche e di conseguenza reali- viene interrotto brevemente per qualche pagina a metà libro da un dialogo immaginario con lo Stato. Cortese scrive: “Credo che non ci sia abbastanza amore per questo Paese. Mi sembra che tutti i partecipanti, avvocati, giudici, imputati, è chiara la consapevolezza sull’ineluttabile inutilità di qualsiasi provvedimento, come se ciascuno avesse rinunciato a battersi per qualcosa di grande. Si avverte una sorta di condotta rinunciataria, come se le cose fossero destinate ad andare alla malora. Certe volte mi ritrovo a pensare che sono stato rinviato in giudizio per scriverci sopra un libro: l’andazzo e l’alone di surrealtà della vicenda sembrano darmi ragione.”
Il dialogo, che induce ad una forte riflessione, risulta forse la parte più interessante di un volumetto che alterna episodi degni di nota ad altri un po’ più piatti e lenti.
Ci sono due sentimenti che prevalgono, basandosi sulla duplicità della narrazione: la sferzante ironia della vicenda in tribunale e la speranza di quella che accompagna la promozione del nuovo libro. E’ interessante soffermarsi sulla prima, di cui voglio portarvi un esempio citando un brano del libro. Cortese è appena stato accusato dal Pubblico Ministero di avere attuato, assieme agli altri amministratori, un disegno criminoso. La notizia però, gli suscita una reazione particolare: “Portai le mani alla faccia non certo per la disperazione, come a qualcuno potrebbe venir pensato, ma per nascondere il desiderio irrefrenabile di ridere. Subito dopo tossii, roteai la testa per l’aula e mi diedi un contegno, rimanendo serio, per mostrare la mia preoccupazione: in realtà ero al settimo cielo, perché aver ascoltato dalla viva voce dello Stato di essere diventato un criminale, per di più in un’aula di giustizia: mi sembrava uno scoop meraviglioso, roba non credere”.
Tutto lo stile si concentra in una parodica assurda rappresentazione della prassi della giustizia italiana, ancora più drammatica perché vissuta sulla pelle dell’autore, e dunque vera, autentica.
Lo sdegno di Cortese, seppur dissimulato da stupore e ironia, diventa palpabile e diventa il nostro. L’impressione è davvero quella di un teatrino di fantocci, estremamente seri ed estremamente ridicoli, che Cortese svela con occhio dissacratore.
La parte relativa la campagna di uscita del libro è, invece, meno brillante, seppur significativa in molte parti. E quando leggiamo “la presentazione termina con quell’unica copia venduta ad uno sconosciuto, simbolo di tutti i lettori del mondo. E’ stato un grande successo” sappiamo che no, questa volta non è ironia, questa volta è detto davvero col cuore. Quella di Cortese è una continua, perpetua speranza, nonostante i momenti di sconforto non manchino.
L’intenzione letteraria dell’autore, già facilmente intuibile nei primi due libri, viene finalmente a galla, quasi come la dichiarazione di un’ideologia: “Alessandro Manzoni sosteneva, in una lettera ad un letterato francese, che il compito della letteratura era quello dierudire la moltitudine, farla invaghire del bello e dell’utile, per rendere in questo modo le cose un po’ più come dovrebbero essere: ecco, non vorrei sembrare presuntuoso, ma io mi trovo nella stessa linea.” Al contrario di Manzoni, però, Cortese usa uno stile anche fin troppo colloquiale, anche fin troppo aperto, potremmo dire nudo e crudo. Questo avvantaggia sicuramente l’autore limitatamente al fatto che, ponendosi in stretto rapporto con il lettore, suscita in lui empatia. Questa è però una scelta che non mi trova mai pienamente d’accordo, come ho evidenziato anche nelle recensioni precedenti.
Le due stelline di voto, lo dico per non fare un torto all’autore, non sono state assegnate per svalutare o danneggiare il suo scritto: ho anzi cercato di mettere in risalto i tratti più importanti di Un’opera dalle molte pretese, che merita certamente una lettura al di là delle critiche stilistiche che posso fare a Cortese. Avendo però preferito la seconda opera, Non dobbiamo perderci d’animo, a cui ho dato tre stelline, sono stata costretta a fare un passo indietro nel sistema di rating. Spero l’autore non me ne voglia e spero che continui la sua attività letteraria, il suo impegno costante per la discussione di tematiche importanti, e spero che, tutto sommato, non ascolti i miei consigli letterari. In fondo Cortese ci piace così.
Massimo Cortese
Nato ad Ancona nel 1961, è funzionario di un ente locale. Scrive racconti dalle ore 14.52 del 2 dicembre 2006, a seguito della nomina a Consigliere d’Istituto nella scuola frequentata dalla figlia. Nei suoi scritti sollecita sempre il lettore alla riflessione sulla realtà incontrata. Con Il Carnevale dei Ragazzi si è aggiudicato il XXIV Premio Nazionale Riviera Adriatica di Ancona. Scrive sulla rivista Visione della UILDM di Ancona, dove cura lo spazio intitolato Cortese…mente.