Recensione: UN PICCIONE SEDUTO SUL RAMO RIFLETTE SULL’ESISTENZA. Ebbene sì, capolavoro

Creato il 20 febbraio 2015 da Luigilocatelli

Un piccione seduto sul ramo riflette sull’esistenza (A Pigeon Sat on a Branch Reflecting on Existence) di Roy Andersson. Con Holger Andersson e Nisse Vestblom. Svezia.
Due poveri venditori di tristi amenità si aggirano come clown in una landa caliginosa, opaca, plumbea. Tra follie e un’ordinaria banalità. Una successione di tableaux vivants. Freaks che fan ridere e piangere, come in un circo dei più derelitti. Siamo dalle parti del capolavoro vero. Strameritato Leone d’oro a Venezia 2014. Voto 9
Ha un’età, lo svedese Roy Andersson: classe 1943 e fate voi i conti. Ma per la consacrazione a cineasta massimo ha dovuto aspettare lo scorso settembre, quando a Venezia gli han dato (giustamente) il Leone d’oro per questo film dall’interminabile e bellissimo titolo. Ultimo di una trilogia partita con Songs from the Second Floor e continuata con You, the Living, Un piccione seduto sul ramo riflette sull’esistenza ha davvero conquistato tutti, pubblico e stampa, fin dalla sua prima proiezione veneziana. Tableaux vivants da una landa d’Occidente (la Svezia, suppongo) desolata, caliginosa, opaca, illuminata da una luce livida che non produce ombre. Facce e corpi come mostrificati e alterati, e pallori e guance terree e carni malate da impietoso quadro di Lucian Freud. Per raccontarci cosa? Non si sa, non si capisce bene, ma in fondo non è poi tanto importante. L’importante è lo sguardo di Andersson su uomini, donne, cose e paesaggi, quello sì, e quello che Andersson offre al nostro sguardo e il come lo fa. Una galleria di poveri freaks. Si comincia con un signore e una signora come immobilizzati tra le vetrine di un qualche museo di scienze naturali a contemplare scheletri e altri reperti, o forse loro stessi museificati e imbalsamati. Umani-oggetto di un diorama. Il movimento è quasi abolito in questo film, la cui fissità ricorda molto da vicino quella dell’universo ritratto e messo in scena dall’austriaco Ulrich Seidl. Con la differenza, fondamentale, che lo svedese dà prova di una pietas nei confronti dei suoi disgraziati, patetici, stralunati personaggi di cui Seidl non sarà mai capace. Si comincia, dopo il prologo al museo, con un ‘Tre incontri con la morte’, tre episodi fulminanti costruiti con ingegneristica precisione su come la signora con la falce possa intervenire nei modi più strambi e improvvisi. Un vanitas vanitarum che ci introduce alla coppia diciamo così protagonista, due sfigatissimi venditori di scherzi, denti da vampiro e altre malinconiche amenità, che sono un travestimento della classica coppia di clown e che percorrono ora al centro ora lateralmente o tangenzialmente il film. Battibeccano, fanno la pace, cercano di vendere le loro povere cose senza riuscirci, cercano di riscuotere crediti senza riuscirci. Vivono in una specie di dormitorio pubblico, attraversano funerei paesaggi urbani e periferici, rovine industriali, pezzi di natura sporca e inselvatichita. Viene da ridere e viene da piangere, come in un circo dei più derelitti. Scene che non si dimenticano. La lezione di flamenco, il numero da musical dei soldati nella taverna di Lotta la zoppa, l’irruzione in un caffè di un settecentesco re di Svezia a cavallo che si porta via come amante il bel barista, l’incubo del gigantesco cilindro-bolide forno-inceneritore. Si possono vedere in Andersson infiniti rimandi e citazioni. Tati, Buster Keaton, Chaplin, i Monty Python, l’inevitabile Fellini. Ma Andersson alla fin fine è solo se stesso, di quegli autori che sanno costruire un proprio universo rendendolo unico, riconoscibile, mettendoci sopra il proprio marchio. Lo strambo titolo viene da una poesia, o meglio il racconto di una poesia, fatto da una ragazzina differente in uno spettacolino scolastico. Capolavoro, se è ancora consentito frequentare questa parola.


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