Recensione: Utopia. Multiversum, di Leonardo Patrignani
Creato il 27 febbraio 2014 da Mik_94
Ciao
a tutti, amici? Allora, come state? Finalmente, sono libero: ieri,
ufficialmente, si è conclusa la sessione invernale e, per fortuna,
nel migliore dei modi possibili. La libertà, però, sarà breve: il
cinque si ricomincia con le lezioni. Intanto, leggo. Intanto, scrivo
qualche post. Oggi, sono qui a parlarvi dell'ultimo romanzo di una
trilogia che ho amato molto: una saga italianissima, firmata dal
nostro Leonardo Patrignani. Dopo le sorprese di Multiversum e
Memoria, questo Utopia non mi ha entusiasmato quanto pensassi.
Ricordate, il mese scorso, la recensione su Requiem, di
Lauren Oliver? Nelle linee generali, mi trovo in una situazione
altrettanto difficile, altrettanto simile. Ovviamente, in questa
occasione, giudicherò questo specifico volume, non l'intero
percorso, che è a dir poco notevole. Vi invito a leggere la mia
recensione, per capire cosa cerco di dirvi. Oltre a cenni vaghissimi
sui precedenti, non sono presenti spoiler. Ringraziando Leonardo e
l'ufficio stampa Mondadori, vi saluto tutti e vi auguro buona
lettura. Un abbraccio, M.
C'è
qualcosa, in me, che forse c'era anche all'inizio dei tempi e
ci sarà alla fine. E' una luce che splende dentro di me. Forse
è una luce che splende dentro ognuno di noi, ma non tutti sono in
grado di vederla.
Titolo:
Utopia – Multiversum
Autore:
Leonardo Patrignani
Editore:
Mondadori “Chrysalide”
Numero
di pagine: 390
Prezzo:
€ 17,00
Data
di pubblicazione: 25 Febbraio 2014
Sinossi:
Quella
in cui Alex, Jenny e Marco vivono da diciotto anni è una realtà
confortevole, una nuova vita lontana dal drammatico ricordo del 2014,
sepolto nelle loro anime. Ma il rifugio sicuro in cui sono cresciuti
è solo una delle infinite facce del dado, una delle molteplici
realtà del Multiverso. Altrove, i loro corpi sono invecchiati e il
mondo si trova sotto la nefasta guida di qualcuno che teme il loro
potere. Hanno attraversato le dimensioni parallele, hanno varcato i
confini del tempo scavando nel passato. Il senso del loro viaggio sta
per svelarsi. La loro memoria è l'ultima speranza rimasta.
La recensione
Sono
seduto a una scrivania che un tempo è appartenuta a qualcun altro,
ma davanti al portatile che è sempre stato mio. Ero al computer
anche allora, ero seduto anche allora: in questa recensione parlerò
di ciò che è rimasto uguale e di ciò che è cambiato. E' giusto
così. Era il 2012 e non era ancora primavera. Il mio blog aveva un
mese di vita appena e lettori che, quasi, si potevano contare sulle
dita della mano. Ero sbucato dal nulla, insieme al nuovo anno, con un
angolino virtuale in cui non credevo, fino in fondo, neppure io.
Avevo fatto amicizia, quindi, con tutti i nuovi arrivati, un po' come
si fa all'università. L'ambiente sembra inizialmente ostile,
estraneo, ma poi ti guardi intorno e riconosci nelle parole di un
altro, nello sguardo di un altro, le tue stesse paure, le tue stesse
incertezze, i tuoi stessi complessi d'inferiorità. Dubbi, dubbi
ovunque: quelli che ci accomunano e non ci rendono mai soli per
davvero, quelli che ci fanno stringere belle alleanze, quando abbiamo
bisogno, be', di dubitare tutti insieme - con compagni
d'avventura salpati per un viaggio talora salvifico, talora incerto.
Con compagni di dubbi. Tra questi aspiranti avventurieri, tra questi
naufraghi persi con la testa tra i libri e i pensieri nella rete,
autori esordienti, qualche volta. Autori pubblicati, autori in attesa
di pubblicazione, autori spaventati dalla parola autore:
poca spavalderia, grande fragilità.
E' stato allora che ho
conosciuto Leonardo Patrignani e ho scoperto il Multiverso: mia la
fortuna di pubblicare la prima intervista, mio il tempismo perfetto
di pubblicare per primo – e per ben due anni di seguito – le
recensioni dei suoi romanzi. Capirete che, sentimentalmente, sono
molto legato a questa trilogia. Ci ho tenuto e ci tengo ancora. Non
posso parlarne senza pensare a quel Michele che, in una dimensione
parallela, ha ancora diciassette anni o a quel Leonardo che, prima
che il dado mostrasse una nuova faccia, non confidava troppo nella
meritata fortuna che, di lì a poco, avrebbe avuto. Non posso
scriverne senza pensare all'oggi. Io ho finito il liceo (anche se
sembrava infinito), ho già due esami nel mio curriculum
universitario (anche se non ci speravo), sono andato leggermente
lontano da casa (anche se pensavo di non avere abbastanza coraggio).
Leonardo Patrignani, nel frattempo, si è sposato, è diventato due volte papà,
ha completato la sua trilogia e ha venduto i diritti di Multiversum
in non so quanti paesi:
parecchi, quello è certo. Sono certo anche di un'altra cosa: avete
imbrogliato, ammettetelo. Lo so, perché lo faccio sempre anch'io:
un'occhiata alle stelline assegnate alla fine, poi un'occhiata al
resto. L'ultima cosa che un recensore appunta, ma la prima a cui
l'occhio corre: è naturale, è una cosa da lettori. Proprio come non
prendere mai il primo romanzo della pila, in libreria; proprio come
controllare, prima di iniziare a leggerlo, la lunghezza dei capitoli,
la grandezza del font, il numero complessivo di pagine. Tre stelle:
voto sicuro; voto che amo e non amo. Ce ne sono di due tipi, per
l'esattezza: le tre stelle di quei libri che sono così,
carini e basta, e quelle che trasmettono una certa amarezza,
indicando il mancato raggiungimento – alla fine – di un obiettivo
che davamo come certo, assodato. La valutazione di Utopia,
nel bene e nel male, lo rende parte della seconda categoria di
romanzi. Nel bene, perché non è uno di quei romanzi piccini, che
definisci carini in
mancanza di altre parole. Nel male, perché mentre Multiversum
e Memoria hanno
saputo entusiasmarmi, quest'ultimo l'ha fatto di meno. Forse la
verità è questa: quando una storia ti piace, quando una storia la
aspetti, nella tua testa la immagini come puoi e vuoi, in attesa di
scorgerla sullo scaffale di una libreria o nella buca della posta. La
scrittura di Patrignani è cinematografica. Crea immagini, e le
immagini parlano. C'è ritmo, concitazione, e i capitoli sono
sequenze e sottosequenze. Il passato e i ricordi sono come vivide
visioni. Mi è mancato, perciò, qualche sano momento di stasi
narrativa. Una pausa per pensare. Una bolla – nel tempo – in cui
rifugiarsi per raccontarsi un po'. Stilisticamente c'è stato un
assestamento: ho letto più convinzione, più fiducia; passaggi che
univano l'acerba freschezza del primo romanzo ai toni più ispirati e
poetici del secondo. I ritmi sono vertiginosi, da action movie: una
sosta nell'intimità dei protagonisti non è quasi mai concessa. Gli
intrecci di voci rompono le dighe, il liquido della vita straripa e
annienta gli argini, lo tsunami non puoi contenerlo in un bicchiere
di vetro. Ripensi a com'era all'inizio e a com'è ora. Tutto è
cambiato, tutto è cresciuto, invecchiato; tutto si è complicato.
Questo, nello specifico, valeva principalemente per il bel Memoria:
cervellotico, machiavellico, ispirato da scienza e immaginazione a
momenti alterni. La storia appartiene talmente tanto a Leonardo che
in essa converge tutto ciò che gli piace, tutto ciò che conosce,
tutti ciò che lo affascina. E' diventata altro da quel che era,
perciò. Muore e rinasce. Vive mille storie, mille imprese, mille
vite. Mancano tutti i modi in cui ama o ha amato, secondo me: l'amore
di un padre, di un figlio, di un compagno di vita o di un migliore
amico li ho percepiti assai debolmente. Eppure Multiversum
aveva proposto, inizialmente,
una storia d'amore tra l'talia e l'Australia. Si basava su un
appuntamento e su una ragazza che non c'era. Non per il ritardo di
treni, tram, taxi: la vita era arrivata tardi, la morte presto.
Troppo. Jenny era al di là dello specchio. Viva, ma in un altro
altrove, in un altro mondo. Lei
e Alex erano i protagonisti, erano giovanissimi, si volevano bene
come si vuole bene chi pensa di avere tutto il tempo del mondo. Tra
Milano, Melbourne e Barcellona, il romanzo di Patrignani era
un'autentica novità... già un passo nel futuro. Era il 2012, eppure
parlava del 2014: sopravvissuti all'apocalisse Maya, i lettori erano
stati spettatori di una nuova catastrofe scoppiata nel cielo, sul
Duomo, la Sagrada Familia, Altona Beach. Jenny ed Alex erano
diventati i novelli Adamo ed Eva di un nuovo, distopico Eden, ma
anche personaggi secondari. Marco, invece, si era scoperto, da
semplice comparsa, protagonista assoluto. E in una dimensione
parallela potremmo esserlo anche noi; passare da nerd a re del ballo, o –
meglio – da nerd ad aspiranti salvatori del mondo.
Salvati dal
mare, salvati da Marco, Alex, Jenny e mucchi di cose preziose. Cose
antiche. Il mare ha custodito persone, oggetti, manufatti. Non la
musica. A Gea è toccato in sorte un futuro senza musica e un
avvenire senza speranza, in cui il Benessere è una gabbia, la
scienza è un'arma, i media un'arma di distrazione di massa. Utopia
parte da lontanissimo. Tutti
hanno fili grigi tra i capelli, rughe sul volto, piaghe nell'anima.
Vessati dai segni del tempo, loro che l'hanno esplorato, esaminato,
temuto. Loro che l'hanno perfino venduto. Camminano lungo un
labirinto di infinite direzioni, che fa tappa per le distopie
“minimal” di Lois Lowry, i faticosi viaggi e le omeriche
peregrinazioni di una parabola sacra, lo spionaggio. Contenitori di
storie, esperienze e ricordi da strappare via come organi vitali, i
personaggi esplorano anni che non puoi contare e che non potrai
vivere, nemmeno se l'immortalità ti avesse benedetto. All'inizio li
conti sulle dita. Un anno, due anni, tre anni... poi nemmeno due mani
bastano più. Le linea del tempo, come un tatuaggio nella memoria,
continua a snodarsi nella tua testa. Quella raccontata nella trilogia
è una storia lunghissima, sterminata, apparentemente senza
controllo. Una storia che, quando si scopre più concreta, quando
abbandona “l'iperuranio” per la terra e l'astratto per il
concreto, si fa anche più imperfetta. L'ho trovata composta da due
parti nette, questa volta. La prima è permeata da una lieve
confusione che avvince, intriga, ipnotizza.
Ha, infatti, quel
qualcosa di misterioso che ti spinge a farti tante domande, a
chiederne ancora e ancora. L'ho preferita di gran lunga, anche se,
pure io che con la fantascienza non ho molta familiarità, qualche
forzatura di troppo e qualche falla l'ho individuata. Nella
seconda parte, invece, le nebbie iniziano a diradarsi, il quadro ad
apparire chiaro. E' stato allora, quando la verità era lì, a un
passo da me, che ho capito cosa voleva dire Lessing.
L'attesa è piacere. Quel velo sottile e invalicabile è
affascinante. Quel fumo magico, soffiato generosamente negli occhi,
ti brucia e ti seduce. Oltre il fumo, non ho trovato quello che
aspettavo. Ci avevo pensato per un anno esatto, e scoprire che la
soluzione era molto più ovvia, semplice, immanente di quanto
pensassi è stato un grande e sonoro “ma”, dopo due libri che
avevo consigliato e lodato senza riserva. Mi aspettavo il meglio.
Qualcosa che fosse il meglio per il sottoscritto, almeno, che scrive
dall'alto – o dal basso - del suo personale punto di vista. Una
conclusione da fuochi d'artificio in cui, lontano da dimensioni
deformate, reiterate, dispersive come in una sala degli specchi,
tutto il molteplice avrebbe trovato l'unità sperata. Come in Cloud
Atlas, ad esempio. Tante vite,
tanti episodi, destinati a incrociarsi in un finale emozionante,
forte, indimenticabile. Il capitolo conclusivo debole non lo è
stato, effettivamente, ma non ho apprezzato molto il modo in cui ci
sono giunto. Alcune dimensioni non ne sfiorano altre, alcune vicende
si accontentano di rimanere a sé stanti. Ci sono piani e livelli che
non si toccano. Né delicatamente, con una carezza contro lo spazio e
il tempo, né con l'improvvisa irruenza di un terremoto che li porta
alla definitiva collisione.
di Roberto Oleotto
Ho capito poco del Multiversum, meno
ancora dei suoi personaggi. Tratti essenziali, una linfa vitale poco
potente. Dovrebbero essere tra le persone più interessanti del
cosmo, dopo tutto ciò che hanno vissuto sulla loro pelle, ma invece
sono statici. Hanno un cervello che lavora come una macchina
perfetta, ma il loro cuore è sordomuto. Non mi sono legato a loro e,
anche nelle situazioni più toccanti, non li ho sentiti vicini.
Distanti tra loro, lontani da me. Utopia,
nell'ultima parte, diventa un film d'azione e loro diventano i
personaggi di un film d'azione, debitamente messi in ombra quando a
essere richiesti sono la forza fisica, il coraggio, la tenacia.
Intervengono, allora, nuovi comprimari, dei quali ho trovato poco
astuta, personalmente, la scelta dei nomi e, in alcuni casi, il loro
stesso inserimento. Sono intagliati con poca cura, fungono talvolta
da evidenti espedienti narrativi, fanno sì – involontariamente -
che l'attenzione sui vecchi Jenny e Alex vada scemando ulteriormente.
I più deludenti, forse, sono gli antagonisti. Mi hanno ricordato i
villains di 007
– stesse smanie, stessi
moventi, stessi momenti. Tutti neri, tutti cattivi, tutti senza
sfumature, in una dimensione distopica che nemmeno l'essere ormai
adulto di Patrignani riesce a colorare con riferimenti all'attualità o con tonalità non contemplate già negli altri libri di un genere –
il distopico – che ormai, per me, è a digiuno di novità. Anche
Marco, insieme al suo nome originario, ha perso una certa dose di
carisma e genuinità, ma ad avere la peggio è la coppia già citata.
Dopo tre libri, dovresti sapere come sono fatti, perché si amano,
quanto si amano, cosa pensano l'uno dell'altra, con quali gesti
dimostrano il loro sentirsi anime gemelle. A dirci che tra di loro
c'è una storia d'amore è la diretta voce dell'autore, ma di quel
mancato appuntamento sul molo – due libri fa – resta solo il
romantico ricordo.
Che
il romanticismo non fosse tra gli obiettivi di Patrignani l'ho capito
dall'inizio, ma una storia tra essere umani e una storia pubblicata
dalla collana Chrysalide – che, oltretutto, ha un target
spiccatamente adolescenziale – dovrebbe avere una giusta componente
sentimentale. Se non altro, per far scattare il brivido davanti a
quell'ultima paginache segna la fine di un percorso bello, ma non
esente da alcune (im)previste instabilità. Mi piace pensare di aver
fatto un po' da baby sitter – passatemi la metafora – a questa
serie e Utopia
è sinceramente il più debole tra i figli d'inchiostro dell'autore.
Quello che avrebbe avuto, forse, bisogno di più tempo, cura,
attenzioni. Io non amo gli addii. Non amo quasi mai come mi dicono
addio, e non l'ho fatto nemmeno questa volta. Perchè ogni ritorno a
casa vuol dire sempre lasciarsi persone care alle spalle e perché –
a volte – manca quella carica emotiva che renda l'addio dei più
indimenticabili e sentiti. Quella di Patrignani era una storia
potenzialmente infinita, grazie a una teoria che – tra scienza,
superstizione e fede – affascinava e scavalcava muri di limiti e
mari di allettanti supposizioni. Ma doveva avere una fine, sì, e,
francamente, ho percepito una certa fretta. Come se il treno volesse
raggiungere la sua meta nel minor tempo possibile. Senza curarsi
della gente rimasta indietro, col biglietto già obliterato in mano,
o dei ritardatari che, invano, tentavano di richiamare l'attenzione
del capotreno, dall'esterno, e di fermare ciò che era ormai in
movimento continuo. Leonardo ha regalato tante vite ai suoi
personaggi, non il tempo. La storia è guidata dai fatti, non dalle
persone che la popolano. E' solo il Multiverso ad avere vita propria.
Una
saga composta da tre libri, questa, in cui è possibile individuare,
per ampi tratti, una bellissima crescita di fondo. Nonostante tutto,
messi puntigliosamente in evidenza i problemi ora grandi e ora
piccoli dell'ultima tappa, non posso fare a meno di consigliarne la
lettura. Sia per quello che ha significato per me, sia per l'audacia
e l'assoluta originalità delle tematiche trattate. Era materiale
completamente nuovo, ma anche potenzialmente esplosivo. L'ultima
tappa del viaggio non mi ha pienamente
soddisfatto,
ma non significa che non ne sia valsa pienamente
la pena. Un libro è fatto di scelte e, questa volta, si ci affida
maggiormente alla memoria del cervello che a quella del cuore. La più
duratura, tra le due solo, solo il tempo saprà decretarla.
L'errore
comune a tante saghe è uno solo: sapere come hanno inizio, non
sapere come finiscono. Leonardo Patrignani, invece, è lucido,
metodico; segue il flusso e lo doma. Avrei preferito, tuttavia, se
qualche volta si fosse perso anche lui. L'avrei apprezzato anche di
più se, davanti a un tentennamento, si fosse affidato alle sue
creature e pensato: “Vediamo che mi dicono; vediamo dove mi
portano. Ascoltiamo e basta.” Perso lungo
un crocevia di tempi, ere, esistenze, in un infinito
viaggiare che più si scopre
spericolato, più si rivela improvvisato, più si manifesta
meraviglioso.
Il
mio voto: ★★★
Il
mio consiglio musicale: Within Temptation – Utopia
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