Recensione: Venuto al mondo, di Margaret Mazzantini
Creato il 22 gennaio 2014 da Mik_94
Ciao
a tutti, amici! Dopo una settimana d'assenza, torno per parlarvi
delle prime cinque stelle assegnate in questo 2014 appena cominciato.
Per recensire un romanzo meraviglioso, che non ha bisogno di
presentazioni e da cui, quasi due anni fa, è stato tratto un film
che vedrò presto, finalmente. Parlare di Venuto al mondo non
è facile, sarà che Margaret Mazzantini non è un'autrice facile. Ho
fatto quello che potevo, ma avrei voluto riportarvi interi passi del
romanzo: io non sono solito sottolineare i miei libri, ma, se usassi
un evidenziatore ogni volta, il romanzo della Mazzantini sarebbe
tutto un colore. Come quella copertina tanto significativa. Vi auguro
una buona lettura, quindi, e fatemi sapere cosa ne pensate - se
conoscete l'autrice, se avete visto i film tratti dai suoi scritti.
Un abbraccio e a presto, M.
Quanta
vita c'è in quella guerra?
Quanta
morte c'è in questa pace?
Titolo:
Venuto al mondo
Autrice:
Margaret Mazzantini
Editore:
Mondadori
Numero
di pagine: 530
Prezzo:
€ 14,00
Sinossi:
Una
mattina Gemma sale su un aereo, trascinandosi dietro un figlio di
oggi, Pietro, un ragazzo di sedici anni. Destinazione Sarajevo,
città-confine tra Occidente e Oriente, ferita da un passato ancora
vicino. Ad attenderla all'aeroporto, Gojko, poeta bosniaco, amico,
fratello, amore mancato, che ai tempi festosi delle Olimpiadi
invernali del 1984 traghettò Gemma verso l'amore della sua vita,
Diego, il fotografo di pozzanghere. Il romanzo racconta la storia di
questo amore, una storia di ragazzi farneticanti che si rincontrano
oggi invecchiati in un dopoguerra recente. Una storia d'amore
appassionata, imperfetta come gli amori veri. Ma anche la storia di
una maternità cercata, negata, risarcita. Il cammino misterioso di
una nascita che fa piazza pulita della scienza, della biologia, e si
addentra nella placenta preistorica di una guerra che mentre uccide
procrea. L'avventura di Gemma e Diego è anche la storia di tutti
noi, perché questo è un romanzo contemporaneo. Di pace e di guerra.
La pace è l'aridità fumosa di un Occidente flaccido di egoismi,
perso nella salamoia del benessere. La guerra è quella di una donna
che ingaggia contro la natura una battaglia estrema e oltraggiosa.
L'assedio di Sarajevo diventa l'assedio di ogni personaggio di questa
vicenda di non eroi scaraventati dalla storia in un destino che
sembra in attesa di loro come un tiratore scelto. Un romanzo-mondo,
di forte impegno etico, spiazzante come un thriller, emblematico come
una parabola.
La recensione
"Un
giorno sono passato accanto a un prato rosso di papaveri e per la
prima volta non ho pensato al sangue, mi sono incantato su quella
bellezza così fragile. Bastava molto meno di un'ascia, di maljutka,
bastava un colpo di vento. Era fermo lì per noi, quel prato, in
attesa dietro quella curva. Un immenso campo punteggiato di lingue
rosse, come cuori caduti dal cielo nell'erba. Ero in macchina con mia
moglie. Ci siamo fermati e abbiamo cominciato a piangere. Prima io,
poi, dopo un po', anche lei mi è venuta dietro come un torrente. E'
stato un pianto che lentamente ci ha svuotati, ci ha risarciti. E da
quella sera abbiamo ricominciato a respirare con il petto. Riuscivamo
a sopportarlo. Per anni il nostro respiro è stato fermo alla gola,
non poteva andare oltre... Due mesi dopo mia moglie era incinta."
Brividi. Brividi
ovunque. Brividi dappertutto. Nelle ossa. Tra i denti. Sulla pelle,
sotto la pelle. Brividi anche nei capelli, come pidocchi. Brividi
come perle. La puntina salta, il vinile s'inceppa, il giradischi
muore. Va via la voce di Gemma, torna il presente. Torno
al presente. Si ci alza
in una stanza che non ha pareti, come in una canzone vecchia e
bellissima di Gino Paoli. Si cerca la forza aggrappati alla tastiera
del letto, alle coperte azzurre. Il letto ha un'anima di legno e non
è vero che il legno galleggia. Io sono di legno, e io non galleggio.
Vado a fondo, mentre i muri diventano mare e la mia stanza una
placenta. Intorno, pesci che nuotano.
Non nell'oceano, non nel fiume:
nel golfo calmo del liquido amniotico. Verrebbe istintivo
rannicchiarsi lì, tra il letto e il mare, come virgole sghembe
disegnate da un bambino che, per gioco, ha provato a scrivere un
pensierino con la mano sinistra, l'altra: la
mamma stira, io leggo. Le
gambe tirate al petto, le braccia che riconosco le ginocchia come
loro fratelli e le cingono, e le abbracciano, e non le mollano più.
Si diventa, così, segni di punteggiatura imperfetti. Feti perfetti.
Invece non c'è compostezza, non c'è grazia, non c'è parola che
basti a rimetterti al mondo. Lo strazio è una bolla di lacrime
concentrata tra fronte e naso, una ruga sulla fronte che prima non
c'era. Il dolore pulsa lì, ma non esce: non scorre giù dagli occhi.
Ho chiuso il mio libro e ho nuotato fino al bagno, strusciando i
piedi sulle mattonelle e su quel familiare fondale di ceramica a
rombi.
Mi sono seduto sulla tavoletta del water perfettamente chiusa
e ho aspettato l'infinito, guardandomi i piedi scalzi, pensando.
Credo che fosse il primo liceo e credo che fosse Ariosto: ricordo
con certezza di non ricordare bene. Si parlava di struggimenti
d'amore, nobili contese, affronti e galantuomini pazzi incapaci di
piangere: erano tanto forti i sentimenti provati dal protagonista da
non riuscire a trovare una via di fuga tra lo sterno stretto, la
cotta di maglia opprimente, la faretra pesante. Orlando – se di
Orlando si trattava – non riusciva a imporre una graduatoria ai
suoi dolori: a dare il primo posto al tradimento, il secondo alla
disfatta, il terzo all'orgoglio ferito. Perciò duellavano, facevano
invano a gara per emergere, si annullavano senza saperlo. Dopo una
storia come Venuto al mondo
ti senti un po' così: dilaniato, esaurito, emotivamente costipato.
Senti di non sapere a quale sentimento dare la precedenza, ma sai che
qualsiasi emozione arriverà prima – che si tratti di compassione o
amore, sofferenza o vergogna non importa più – ti farà male, ti
trancerà le gambe, come un pirata della strada con un cieco in mezzo
al traffico. E non parlo di cuori spezzati, singhiozzi affranti,
trascurabili fitte. Leggi Venuto
al mondo e pensi che un
calcio nelle palle t'avrebbe fatto meno male. L'autrice colpisce dove
sa strapparti un urlo, una bestemmia, il fiato. Al centro della
mascolinità, nel primordiale segreto del divenire padre. Fa un male
cane e, se sei uomo, ti toglie la virilità. Anestetizza la tua
identità, nega il cromosoma sbagliato che ti rende quello che sei.
Ti fa sentire donna, ti fa sentire mamma. Io e Margaret Mazzantini
avevamo una questione in sospeso chiamata Non
ti muovere: quella
bella signora dagli occhi blu, infatti, d'impatto, non mi era stata
simpatica. Ero il lettore imperfetto io, ed ero in quell'età sospesa
e ingenua in cui i pensieri più brutti e vili di un uomo mi
sembravano alieni. Io che, ancora piccolo, conoscevo giusto quelli
del mio papà. L'ho riletta adesso – con il diploma del liceo
appeso al muro, la patente nel portafoglio e una certa maturità
aggiunta – e abbiamo fatto la pace e la guerra, sotto il fuoco
incrociato delle sue parole d'acciaio arrugginito. Io ero Pietro. Io
ero suo figlio. La sua prosa, un grembo materno: buio, misterioso,
avvolgente, grande, caldo. Una casa che resiste, con il ritratto di
Tito al muro e pentole in cui nuotano pesci rossi scacciati dal loro
acquario frantumato, ai bombardamenti. Margaret ha uno stile corposo,
purulento, meravigliosamente ricco, che si spezza ora in una poesia
dai versi sciolti, ora in una lettera improvvisata, ora in una pagina
di un diario d'ossessione.
Ha il naso
per
percepire l'odore intenso delle spezie e della carne arrosto e un
fetore acre che sa di formiche bruciate; ha la bocca
per
baciare, urlare contro un Dio che forse è morto, dire una verità
scomoda; soprattutto, ha gli occhi,
occhi
che immortalano quello che non dimenticherai mai. Cose brutte e cose
belle in un rullino fotografico lasciato alla polvere. La Mazzantini
vive d'amore e di guerra e va in cerca di vita, in mezzo a quella
morte inspiegabile che gela il sangue. Oscilla, affascinante, su
un'altalena librata sugli opposti: a tempi alterni, la testa rivolta
verso il confine della fine e i piedi verso il tunnel di una nuova
nascita. Spia i movimenti di vittime innocenti dal mirino del fucile
di un cecchino; qualche volta fa fuoco, qualche volta è clemente e
ti salva la vita. Costruisce il passato di una famiglia mancata
attraverso ecografie piene di ovuli ciechi e figli che, forse, non
dovevano venire. La superba storia d'amore tra tre destini e una
città maledetta dalle stelle. Sarajevo ha il nome di un tango.
Sarajevo – schifosa, suggestiva, unica - è gelosia e passione,
morte e vita. Sarajevo, che potrebbe essere il nome di un
transessuale triste con il trucco sciolto e l'attesa di un
cambiamento
“contronatura”.
Tutte le strade, nell'arco di trent'anni, portano e riportano Gemma,
Diego e Gojko lì, dove la guerra e una Madonna punk hanno generato
Pietro – estroverso, moderno, ruvido, un'adolescenza pronta a
sbocciare.
A Pietro, Margaret ha dato i tratti e gli occhi del
maggiore dei suoi quattro figli: ha scritto tanti libri, ha avuto
tanti parti, lei. Ha messo al mondo quattro volte la vita perché lei
ne è perdutamente innamorata, in fondo. Lo si percepisce da quello
che fa, nella cura impressionante che deve richiedere: penso a una
mamma che, di domenica, nel suo unico giorno di riposo, mette la
sveglia alle sei per mettere la bolognese sul fuoco, preparare le
lasagne fatte in casa, far odorare la casa di buono. Lei, che sa cosa
significa crescere quattro figli sani e forti, sa anche cosa avrebbe
significato non averne: sa descrivere il vuoto cosmico che Gemma
sente nella pancia con passaggi fortissimi e pieni di verità. La
protagonista è complicata, come tutte le donne; anche di più. Gemma
si sente una donna a metà, ma è sfuggente il doppio, il triplo, il
quadruplo. Il suo desiderio di diventare madre diventa ossessione,
odio verso eserciti di donne con i jeans premaman che affollano le
strade, gli uffici, i bar. Tutte insieme. Quasi a voler sventolare le
loro forme, morbide come il pane, e i loro ventri accoglienti davanti
a una Gemma fredda, triste, spezzata, inutilizzabile. Le donne della
Mazzantini sono fortissime, mentre gli uomini sono troppo buoni e
troppo stupidi, leggeri come quei mazzi di fiori di carta venduti
quando le rose hanno preso lentamente a morire. Diego ha la testa tra
le nuvole, il cappello da Puffo, i pantaloni a sigaretta colorati, un
sorriso enorme e storto sul volto piccolissimo, una macchina
fotografica – al collo – che è la croce che si porta appresso.
Per fotografare neonati nelle cassette della frutta, nuche e
ombelichi di donna, pozzanghere. Gojko, invece, ama due donne – la
mamma, che somiglia a Lady D, e la sorellina, che vuole andare, da
grande, alle Olimpiadi – e le corteggia tutte quante: beve, fuma,
compone sinfonie a suon di rutti, scrive poesie dedicate a Sarajevo e
ai grazie,
gioca a calcio con la testa mozzata di un nemico per vendetta,
sporcandosi i jeans buoni di sangue. Margaret Mazzantini rievoca, tra
le sue pagine, un conflitto vicinissimo, nel tempo e nello spazio, di
cui, se solo volessimo, potremmo ancora sentir risuonare gli echi, al
di là del mare. Ma la domanda è una: vogliamo?
La
risposta mi sfugge, come mi è sfuggita, per troppo tempo, la reale
identità di questo secondo olocausto. I programmi di storia, a
scuola, parlano sempre di bambini col pigiama a righe, mai di Pietro,
mai di Sebina, mai del bambino blu scorto da Gemma sul tavolo
dell'obitorio, accanto al cadavere rattrappito di un povero vecchio
morto insieme alla sua povera dignità. Un'amica, Elisa, mi ha detto che
siamo tutti responsabili dei drammi che accadono nel mondo, siamo
tutti complici.
E siamo tutti Diego, anche se nessuno lo ammette. Perché lui è
cordardo, mentre tutti – fregati da un'inconsistente presunzione –
si credono eroi. La verità è che tutti avrebbero scelto la
sicurezza dello stanzino delle scope, interrogandosi a lungo su cosa
sarebbe successo se avessero fatto altrimenti. Non si sarebbe risolto
niente, si sarebbe risolto tutto. Crudo, scomodo, atroce, capolavoro.
Grandi personaggi, gran libro, brutta storia. Un libro da leggere a
voce alta, un libro che ti sbudella il cuore. La Mazzantini come una
paladina della memoria, Margaret come una regina della narrativa. “E'
stato più facile prima correre sotto le granate che dopo passeggiare
sulle macerie.”
Il
mio voto: ★★★★★
Il
mio consiglio musicale: Fontana di Sarajevo – Eduardo Cruz
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