Recensione: VIAGGIO A TOKYO (Tokyo Story) di Ozu Yasujiro. Andateci!

Creato il 21 giugno 2015 da Luigilocatelli

Viaggio a Tokyo (Tokyo Story) di Ozu Yasujiro. Con Ryū Chishū, Higashiyama Chieko, Hara Setsuko Sugimura Haruko . 1953. Bianco e nero, 136 minuti. Versione restaurata in 4K.

Da lunedì 22 giugno a Milano (poi si spera anche altrove) il primo di sei film del grande Ozu in versione restaurata. Dire che Viaggio a Tokyo è un’opera assoluta è dir poco, tant’è che nel sondaggio di Sight&Sound registi di tutto il mondo l’hanno votato come miglior film di sempre. Ma non lasciatevi intimidire dall’aura del capolavoro. Viaggio a Tokyo è anche un film appassionante, con una storia di genitori e figli (un tipico home-drama di Ozu) universale. Voto 1o
Dio mio, come si fa a scrivere di un film considerato tra i vertici della storia del cinema? Cosa dire che non sia già stato detto? Cosa scrivere senza ripetere l’ovvio? Soprattutto, come si fa a non cascare nell’atteggiamento reverente, nella genuflesione etatica, nella melassa retorica? Intanto, qualche comunicazione di servizio (già data peraltro nel mio precedente post). Viaggio a Tokyo, internazionalmente noto come Tokyo Story, è il film-manifesto di Ozu Yasujiro e del suo fare cinema, della sua visione, quello “nel quale il grado di perfezione è più alto, e forse è il suo (di Ozu) capolavoro assoluto, il suo film più rappresentativo” (Sato Tadao, L’art de Ozu Yasujiro, Cahiers du Cinéma 1978). Ebbene sì, imoperdibile, anzi obbligatorio. Da prendere al volo la chance offerta dalla Tucker di Udine che, in linea con la sua vocazione per il cinema del Far East ha deciso di distribuire nelle sale italiane (in qualche sala di qualche città) Viaggio a Tokyo insieme ad altri cinque titoli di Ozu nella versione restaurata in 4K dalla Shochiku, che del grande giapponese è stata la storica casa di produzione. Si parte da domani, lunedì 22 giugno, da Milano, proprio con Viaggio a Tokyo, e chi ne volesse sapere di più della programmazione consulti il sito della Tucker o quanto ho scritto stamattina su questo blog. Lo status di totem assoluto conquistato da questo film del 1953 nel corso del tempo è stato ribadito dal sondaggio effettuato dalla rivista inglese Sight&Sound nel 2012 (il sondaggio viene rifatto ogni dieci anni) presso registi e critici di tutto il mondo. Bene, i primi l’hanno votato come il film migliore di sempre (tra di loro Nuri Bilge Ceylan, Asghar Farhadi, Aki Kaurismaki, Steve McQueen), i secondi l’hanno piazzato alla posizione numero tre dopo La donna che visse due volte di Hitchcock e Quarto potere di Orson Welles. Un film monumento, circondato da un’aura come pochi altri, adorato da Wim Wenders che a Ozu ha dedicato il suo Tokyo Ga e da Paul Schrader, autore di quell’Il trascendente al cinema in cui il massimo autore giapponese è collocato e analizzato accanto a Bresson e Dreyer. Il mio consiglio, se consigli posso dare, è di sapere il più possibile su Ozu e Tokyo Story, di cercare fonti e informazioni ovunque sia possibile (e oggi Internet aiuta), per poi però metabolizzare e dimenticare, e darsi alla visione con testa sgombra e sguardo ingenuo. Pronti ad assaimilare, e gustarsi e godersi il film anche, soprattutto, al suo primo strato e nella sua immediata accessibilità, andando oltre, e quasi perforandola, quell’aura di capolavoro monumentale che lo circonda. E che ahinoi rischia di tenere lontano lo spettatore e paralizzarlo. Invece Ozu, maestro del cinema della rarefazione, della purezza, dell’essenzialità e dunque per questo adorato dai cinefolli più radicali e intransigenti, è anche un narratore meraviglioso, uno storytreller che sa metter in scena vicende universali e personaggi in cui tutti si possono riconoscere e a cui è facvile voler bene. Storie mirabilmente raccontate e personaggi rifiniti al cesello. Veniva dal cinema-industria, Ozu, anzi da lì non si è mai scostato, e la sua identità d’autore, l’ascesi verso l’assoluto del suo cinema, le ha realizzate senza mai tranciare i legami con lo spettatore. Che resta ancora oggi una grande lezione. Certo, se oltre ad appassionarvi ai due anziani coniugi che vanno nella capitale a far visita ai figli là trasferiti (e la storia, garantisco, è appassionante), ce la fate anche a prestare un minimo di attenzione alla grammatica e alla sintassi del cinema di Ozu non sarebbe male. Cibo per la mente e per l’anima. Occhio allora alla macchina da presa posta – come dicono gli esegeti – ad altezza di tatami, in modo da riprendere personaggi e ambienti dal basso, tecnica che Ozu aveva messo a punto per filmare i bambini ma che poi ha adottato per tutti, e che conferisce un senso di prossimità ai personaggi e però mai di invadente inimità (ne parla anche Mark Cousins nella sua History of film, 15 capitoli in video e un libro). Occhio, ancora, all’economia linguistica ed espressiva di Ozu. Zero primi piani, inquadrature a camera prevalentemente fissa (in Viaggio a Tokyo ci sono solo due,quasi invisibili, carrellate, e cercate di beccarle) e perlopiù rigorosamenbte simmetriche, personaggi dialoganti ripresi in campo e controcampo a guardare dritto in macchina. Uso massiccio dell’ellissi, sicché avvenimenti basilari vengono semplicemente bypassati e mostrati nel loro prima e nel loro dopo (vedi, in Viaggio a Tokyo, la morte di uno dei caratteri principali). Cinema della fissità, dell’essenziale, dove si potrebbero rintracciare tracce zen, della sua visione e poetica del vuoto, del nulla (sulla sua tomba Ozu ha voluto solo l’ideogramma Mu, che significa per l’appunto niente, vuoto). Cinema del sublime, del trascendente per dirla alla Schrader, che ancora oggi incanta e ipnotizza. Sono 136 minuti, ma non vi annoierete mai. Si partecipa, in certi passaggi anche ci si diverte (ebbene sì, Ozu non è un regista malmostoso e distante), ai due coniugi Hurayama quasi settantenni – lui Shukichi, lei Tomi – che decidono di lasciare il loro paese, Onomichi, per andare a far visita a Tokyo a due dei loro figli lì trasferiti. L’ultima, non ancora sposata, abita con loro, mentre il maschio più giovane se ne sta a Osaka dove lavora in ferrovia. Approdano in casa del maggiore, medico di quartiere con specializzazione pediatrica, sposato con due figli. Che non è così entusiasta di ospitarli e che, d’accordo con l’altra figlia emigrata nella capitale, Shige, di mestiere parrucchiera, per levarseli di torno qulche giorni li manda alla terme, in un albergo vista mare. Anzi, è soprattutto lei, la parrucchiera, la jena di famiglia, la stronza, la meno vogliosa di spupazzarsi gli anziani babbo e mamma, peraltro gentilissimi e per nulla invadenti (sempre lì a fare inchini e chiedere scusa per il disturbo pure ai figlioli, a nuore e generi). Altra sensibilità è quella invece di Noriko, vedova del figliolo morto in guerra, e mai risposatasi. Donna sola, che da sola si mantiene con il suo lavoro di impiegata e che sarà l’unica a Tokyo ad accogliere come si meritano i due anziani. I quali dopo qualche giorno decideranno di togliere il disturbo e di tornarsene al pasello, dove però succederà un fatto drammatico che sconvolgerà la famiglia e riunirà tutti i figli, i vicini e i lontani. Non si può non stare dalla parte dei vecchi Shukichi e Tomi (di lui in particolare, adorabile) e vederci tracce di storie di famiglia cui tutti abbiamo assistito. Notando come il modello narrativo dei vecchi genitori in visita ai figli, o comunque della reunion di famiglia, sia stato poi ripreso in film successivi come Stanno tutti bene e Parenti serpenti, a ribadire universalità e persistenza di Tokyo Story. L’incanto esercitato da questo capolavoro senza se e senza ma di Ozu deriva anche dalla sua consonanza profonda con l’anima giapponese, il suo essere specchio di quella civiltà, di quei modi, di quella cultura familiare e di relazioni sociali edificata sull’autocontrollo e il minimo dispendio verbale ed emozionale. In questo film genitori e figli si scambiano poche, essenziali battute, ma ogni parola risuona all’infinito, evocando testi e soprattutto sottotesti. E a delineare il rigetto da parte della figlia jena bastano al regista pochi tocchi, e solo una parola di troppo. Il disagio dei due vecchi nell’albergo alle terme viene espresso anche lì con una economia verbale e di gesti che rasenta lo zero, con uno sventolio appena appena eccessivo e nervoso dei ventagli che basta a dirci tutto quello che va detto. Questa rigida adesione della messinscena all’autocontrollo, ai modi rigidi della tradizione, non impediscono a Ozu di operare dall’interno una critica sommessa nel tono ma devastante nella sostanza dell’istituzione familiare. Dei figli, si salva solo la minore, e a fare la figura migliore di tutti è una non consanguinea, la nuora vedova di guerra, che ai due suoceri sinceramente si affeziona e che sarà la sola a stare vicino a lui quando resterà solo. Si resta colpiti dall’austerità, anche dalla povertà della vita di Tokyo di quegli anni, nranche dieci dalla fine della guerra. Case minuscole (la figlia parrucchiera dorme con il marito dietro a un tramezzo che separa il letto dal salone in cui lavora, la nuora Noriko vive in pochi metri quadri di una casa popolare e assai promniscua, tant’è che quando dovrà ospitare i suoceri a dormire potrà accogliere solo Tomi – e Shukichi se ne andrà a ubriacarsi di sakè insieme a dei vecchi amici ritrovati). Una modestia diffusa oggi impensabile, in Giappone e in l’Occidente. Sicché Viaggio a Tokyo si rivela essere anche un documento fedele del suo tempo, uno spaccato antropologico su un Giappone non poi così remoto, ma, temo, ormai cancellato.


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