Un primo romanzo che, pur nelle sue fisiologiche ridondanze adolescenziali, già tradiva le avvisaglie di uno stile molto personale, di un intreccio studiato e originale, di una notevole poesia di sentimenti. Un talento in boccio che ritroviamo in questo suo secondo lavoro, stavolta di stampo completamente realistico: una storia intimista, con una protagonista anziana e tormentata, in lotta con i ricordi della sua giovinezza.
Questo è un romanzo amaro, introspettivo, la cui indagine sulla natura umana si espande ben oltre la giovane età dell’autrice, imboccando la strada verso la letteratura.
RECENSIONE Questa storia si sviluppa su due piani narrativi differenti: il presente, in cui la protagonista Emilia (professoressa di lettere in pensione) affronta i primi acciacchi della vecchiaia con il sostegno delle tre vicine di casa e il passato, un’età dell’oro, di smottamenti storici e rimpianti, in cui si richiama alla memoria un amore impossibile, di stampo vagamente “marqueziano”. Il tutto ha luogo nella sala d’aspetto di un dentista, in cui l’anziana prof si lagna dell’imperante paradigma anglofono che tutto abbatte, facendola sentire impotente, visto che lei l’inglese non lo sa.
Il piano narrativo contemporaneo è senz’altro il più riuscito, il più convincente: l’acume e la delicatezza con cui Bianca ci racconta i pensieri malinconici che occupano la mente di Emilia è qualcosa di assolutamente miracoloso, specie se si pensa che proviene da una persona di appena vent’anni, che è riuscita in modo perfetto a calarsi nei panni di un’anziana piena di rimpianti, qualificandosi con una consapevolezza che va molto oltre la sua giovane età.
Ignorare è il modo migliore per sopravvivere ed io volevo solo questo: sopravvivere. Chiudere gli occhi e respirare dalla bocca senza sentire il tanfo della vita intorno a me. Volevo stare al mondo come una pianta in un vaso e farmi annaffiare da qualcuno fino alla fine dei miei giorni senza conoscere mai il nome di quel qualcuno. Senza amarlo, per non sentirlo mancare mai.Il lungo flashback che ci accompagna indietro nel tempo, precisamente nel 1942, ci parla di una Emilia adolescente, unica di tutto il suo paesino pugliese desiderosa di studiare per emanciparsi dagli umili mestieri con cui occupano il loro tempo parenti e amici. Un destino condiviso con Angelo, un lontano cugino dimenticato, che torna al paese per annunciare che studierà medicina a Roma. La storia di un amore passionale e tormentato, che tuttavia si infrange sulle difficoltà del caso, su quel sentimento di stillante umanità che è la vigliaccheria: una vigliaccheria dettata dal buon senso, dal sogno di una vita migliore, dalla difficoltà del momento storico. Mentirei se dicessi che la ricostruzione storica ha una grande rilevanza: a svettare da questa pagine sono i sentimenti, cui la storia fa davvero solo da sfondo, creando un’allure sospesa in mezzo al tempo; a parer mio, a differenza di ciò che hanno detto altre recensioni, si tratta di una scelta. Prerogativa di Bianca non era, infatti, raccontare gli anni del ventennio fascista (motivo per cui è difficile considerare questo libro un romanzo storico), ma piuttosto fotografare impressionisticamente quel momento privato, proprio come viene ricordato dalla memoria di Emilia, che ne ha una visione mitica e pesca nella sua mente solo ciò che vi è legato, tralasciando tutto il resto.