Recensioni a basso costo: Dio di illusioni, di Donna Tartt
Creato il 13 agosto 2014 da Mik_94
La morte è la madre della bellezza. E cos'è la bellezza? Terrore.
Titolo: Dio di illusioni
Autrice:
Donna Tartt
Editore:
Bur – Rizzoli
Numero
di pagine: 622
Prezzo:
€ 11,00 (Scontato: € 9,35)
Sinossi:
Un
piccolo raffinato college nel Vermont. Cinque ragazzi ricchi e
viziati e il loro insegnante di greco antico, un esteta che esercita
sugli allievi una forte seduzione spirituale. A loro si aggiunge un
giovane piccolo borghese squattrinato. In pigri weekend consumati tra
gli stordimenti di alcol, droga e sottili giochi d'amore, torna a
galla il ricordo di un crimine di inaudita violenza. Per nascondere
il quale è ora necessario commeterne un altro ancora più
spietato...
La recensione
Di
Dio di illusioni non mi dicevano semplicemente che era un
libro bello, ma che era uno di quei libri – scritti una volta ogni
tot di anni – che cambiano la vita di chi lo legge. Aspettative,
dunque, non alte: di più. E' stato strano leggerlo, nella sua voluminosa
interezza, nell'attesa perenne di qualcosa. Esperienza unica girare
pagina con la speranza di trovarsi lì, prima a pagina cento, poi a
pagina seicentoventi, cose rare e grandi. Giravo, giravo,
giravo: come faccio per casa, con i piedi che non stanno fermi,
quando aspetto un ospite importante. Sono stato vigile, in attesa,
sull'attenti, ma qualcosa è andata per il verso sbagliato. Nessuno
ha bussato alla porta, quel misterioso senso del tutto non si è
voluto far vivo. Dunque, filosoficamente, umanamente, culturalmente,
non mi ha cambiato come persona. Sono lo stesso di una settimana fa,
solo con un romanzo in meno da leggere. Avrei voluto vederci tanto,
ma cosa avrei dovuto, esattamente, cercare di scorgere? Non so bene,
e aspetto che qualcuno mi faccia luce e mi indichi, magari, la strada
corretta. Sulla neve fresca del Vermont, la scia dei miei passi alla
deriva. Non ho visto granchè di quello che non c'era scritto,
quindi mi concentro sul concreto. Dati empirici, inchiostro
indelebile, pagine da annusare. Un romanzo, grosso, di seicento
pagine e oltre, che ho scoperto all'inizio di quest'anno. Pubblicato
per la prima volta ventidue anni fa, ha rivisto la luce grazie a una
ristampa recentissima. La misteriosa Donna Tartt, donna bellissima e
criptica che pubblica un libro ogni dieci anni, aveva vinto il premio
Pulitzer e scritto un ennesimo capolavoro. Ennesimo. Il che vuol dire
che ce ne erano stati necessariamente degli altri. Recuperare il
primo, su consiglio di amici e colleghi, è stato immediato. L'ho
portato al mare con me, anche se – per la sua strana natura – è
l'opposto del libro da ombrellone. Sinceramente, però, non sapevo
quando altro avrei potuto leggerlo: in precedenza, con la sessione
estiva e il tempo cattivo? Ad ottobre, con i nuovi corsi e i sali e
scendi continui per raggiungere l'università? Il mare mi rilassa, mi
lascia concentrato e vigile, mi rovina il dorso dei romanzi in
brossura, ma tant'è. Non essendoci momento migliore, l'ho creato un
po' da me. Leggendolo sono arrivato a una sacrosanta conclusione: io
guardo troppi film. Ma proprio tanti. Leggo anche molto, certo, ma
mai un libro al giorno. Invece un film al giorno, bello o brutto che
sia, la guardo; necessariamente. Ecco che succede, quindi, quando un
libro scritto benissimo, e con splendide parole di troppo, ti
racconta una storia che già hai visto e rivisto altrove: sensazione
nota, sentimento spiacevole. Lo fissavo da tempo e lo temevo, a
giusta ragione. Era lungo, prolisso, impegnativo: mi domandavo, tra
me e me, se avrei retto. La lettura si è rivelata piuttosto
scorrevole in molti punti, lenta in altri, ma indubbiamente valida.
Mi ha annoiato raramente e raramente ho desiderato di portalo in
fretta alla fine. Perché, come dicevo, aspettavo. Chissà cosa, ma
aspettavo. Finchè mi sono ritrovato le mani vuote: le pagine erano
tutte finite. Allora mi sono concentrato su altro e, pensando a un
commento da scrivere, mi sono chiesto cosa mi fosse rimasto... Cosa
mi è rimasto? Il sentore forte di un'infinita, connaturata classe:
Donna Tartt è una signora scrittrice.
Riempie le crepe, i fori, i
graffi con il cemento di una prosa invidiabile. Si stenta a credere
di trovarsi davanti a un esordio, ma lei è nata brava. Già. Brava
nell'intrattenere, nello spaccare il capello in quattro, nel dire perfino le cose più
superflue nel modo più giusto. Mescola le filosofie di altri e una
filosofia che è solo sua. Costruisce una chiesa in cui si avvertono
echi vibranti di Nietzsche, Dostoevskij, Euripide: una tragedia
gialla che inizialmente non afferri. Ti limiti a definirla
“affascinante”, perché così è. Nonostante parli con
consapevolezza e faccia sfoggio di una cultura vasta e approfondita e
ancora, nonostante nemmeno per un secondo il suo sapere mi sia parso
vuota ostentazione da prima della classe, ha elaborato personalmente
dottrine, teorie, idee in cui già mi sono imbattuto con i miei
studi, per dovere o curiosità personale. Cinque sudati anni di Liceo
Classico mi hanno dato un metodo di studio, un'infarinatura di
filosofia, nozioni di greco antico: trovate tutto nelle brochure! Nonostante la lingua di Omero non sia diventata mezzo per parlare
astrusamente in codice e rendendomi a malincuore conto che i
protagonisti del romanzo in due anni di corsi già parlavano
fluentemente una lingua morta, alla faccia mia, la particolarità dei
caratteri, i frammenti colti di un Callimaco, i riferimenti a miti e
credenze passate non mi hanno impressionato. Toglieteci, dunque, la
mancata persuasione. Toglieteci che la trama, esile ma articolata
alla perfezione, mi sembrava un elegante pasticcio di cose già note.
Quel che restava di Dio di illusioni: una prosa florida e poco altro; quei personaggi ipocriti, cinici, biechi, che eppure – delineati in
maniera tanto sopraffina – facevano buona compagnia, sorseggiando
drink ad alto tasso alcolico e intossicandoti col fumo stantio delle
sigarette, il miasma della cospirazione, l'incenso pungente del rito
dionisiaco.
Li vedo qui davanti a me, come fantasmi: questa è una
storia che, anche se non lo sapete ancora, ne è piena. Perciò loro,
al buio, mi guardano con occhi a raggi x. Inquadrati in contre
plongée che fissano il baratro, con un cadavere sul fondo, mentre il
baratro fissa loro. Giacca e cravatta, camicia inamidata, occhiali
tartatugati, l'aria distinta, la complicità assicurata da un comune
misfatto. Il narratore, Richard: un ragazzo di umili origini,
bugiardo per necessità, che veste abiti di seconda mano e arrabatta
denaro come può, nei gelidi inverni all'università; il delicato
Francis, che solo tra amici può permettersi di non nascondare la sua
sessualità vissuta con cruccio; gli inseparabili fratelli gemelli,
Charles e Camilla: brillanti e avvenenti angeli; l'imponente e ricco
Henry, dall'ambizione smodata e con un animo di fango da Mr
Ripley; infine, il ragazzo il cui destino è svelato alla prima
pagina, Bunny: assassinato. E perché? Il romanzo parte dalla fine,
svelando a poco a poco i retroscena dell'omicidio; le indagini della
polizia locale; gli sbrigativi piani b; la cattiva influenza di un
ottimo insegnante, l'affascinante e ambiguo Julian. Un burattinaio
che rimane, fino alla fine, in ombra, indecifrabile e bizzarro,
eppure motore vero di quel giovane coro tragico. Rituali e pratiche
arcane: descritte con toni più perfidi e coinvolgenti in L'età
sottile. L'istruzione che uccide e insani legami
studente-insegnante: L'allievo, Cracks, Symbiosis,
Formula per un delitto, Giovani Ribelli, Oxford Murders, l'ottimista L'attimo fuggente (addio, Robin). Soprattutto,
ho pensato a The Dreamers,
tratto da un racconto datato 1989, mi dice Wikipedia: i giochi sentimentali dei
personaggi, le combinazioni amorose, la paura che una crepa nella
torre d'avorio possa buttare giù tutto, l'affinità elettiva, cenni
all'omosessualità e le preoccupanti gelosie dei fratelli verso le sorelle gemelle. Eloquenti e dotti, dal primo all'ultimo, inquietanti e
inquieti, dal primo all'ultimo, discettano di alti argomenti e,
parlando di splendore e paura, immortalità e dannazione, lavorano a
un crimine perfetto. Difetto di un libro non altrettanto perfetto:
l'autrice mette per bene i puntini sulle "i" e, nella parte conclusiva,
elenca vita, morte e miracoli di inutili personaggi minori. Nulla è
lasciato al caso, almeno apparentemente. Il finale è risolutivo e
appagante, ma le informazioni, le digressioni e le novità aggiuntive
mi hanno dato come l'impressione che la Tartt, furba, cercasse di
distrarci, e da quelle che, purtroppo, sono incongruenze; banalità;
toppe posticce. Non lo diresti, vedendola cullarsi in una
molteplicità sterminata di dettagli, ma ha una fretta matta. Io, che
tenevo d'occhio più il filo conduttore della trama che il superfluo,
l'ho notato: la tensione si scoglie in un unico, prevedibile passo
lasciato in balia del caso. Lei svela quello che non deve svelare,
dicendo quello che, imprevedibile, doveva custodire solo la notte. Un deforme romanzo di formazione. Un esordio folgorante, ma lontano, sia dal Paradiso che dal pagano Olimpo.
Il
mio voto: ★★★½
Il
mio consiglio musicale: Dario Marianelli – Briony (da Espiazione)
Attenzione: Spoiler: evidenziare, per leggere.
Il
suicidio della vera anima del gruppo: la
polizia a cosa lo attribuisce? Depressione? E quei colpi volati nella
stanza d'albergo? Com'è possibile che tutti l'abbiano fatta franca,
proseguendo beatamente con le loro vite annoiate? Colpa, senso di
fallimento, abbandono... Penso che anche il più sbatato dei
poliziotti avrebbe collegato il colpo di pistola autoinflitto, alla
fine, alla morte ancora senza perché di Bunny. Mah. Dal giallo non prende in prestito il ritmo, ma il peggio: vale a dire, forze dell'ordine idiote!
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