Cosa voleva dimostrare esattamente, Mario Luzzatto Fegiz, col suo spettacolo teatrale "Io odio i talent show"? Quale messaggio voleva lanciare? Certo, il titolo prometteva bene: sintesi estrema, cruda, eppure efficace di un autorevole punto di vista sul principale fenomeno musical - televisivo del ventunesimo secolo. Inevitabile che lo spettatore, soprattutto chi come me segue con particolare interesse le vicende del mondo delle sette note, si accosti a una tale rappresentazione con curiosità, attendendosi in primis una presa di posizione decisa, articolata e documentata sui vari "Amici", "X Factor" e giovane compagnia... cantante e (tele)votante. Non solo: trattandosi di uno dei più popolari, discussi e"implacabili" critici musicali degli ultimi quarant'anni, altrettanto lecito sarebbe stato chiedere di essere condotti per mano in un viaggio tra i segreti più o meno scottanti del sottobosco discografico nostrano. Nulla di tutto questo, o quasi. L'argomento talent, potenzialmente vastissimo e complesso, si esaurisce nella parte iniziale dello spettacolo (che ho visto nei giorni scorsi al teatro Arca di Milano), certo non senza un'apprezzabile dose di autoironia ("Odio i talent - afferma Fegiz - perché hanno posto fine alla dittatura della critica"). Dopodiché, si parte per la tangente di un flusso scoordinato di ricordi e aneddoti. Che ci stanno, per un mostro sacro del giornalismo musicale, ma un minimo di filo logico lo si pretenderebbe. Non c'è un criterio di narrazione autobiografica che guidi e ordini il dispiegarsi dello show; il succoso spunto iniziale, quello dei talent, si annacqua ben presto e perde consistenza, scavalcato da altri flash, da altri episodi pescati nella memoria del giornalista, quasi come se il marinaio Fegiz, una volta lasciato il porto, perda immediatamente la bussola non riuscendo più a orientarsi, a dare organicità al suo corposo background, vinto dall'ansia di raccontare più fatti possibile nel ridotto tempo della messa in scena. Contrappuntati dagli inserimenti musicali del chitarrista Roberto Santoro e del fisarmonicista Vladimir Denissenkov, ecco rivivere gli esordi radiofonici del critico, da speaker ispirato ai modelli americani, le avventurose cronache dei grandi concerti anni Settanta, quando il pubblico dei live contestava sistematicamente, anche in modo violento, gli artisti sul palco, dai Santana a De Gregori; c'è poi l'omaggio a Lucio Dalla e c'è pure l'incontro con Mogol, fino a una discutibile (e mi tengo basso...) parentesi dedicata a Luigi Tenco, e al fatto che scrivere un libro su di lui abbia portato alla prestigiosa firma del Corriere una scalogna immensa e sistematica. Neanche per scherzo, al giorno d'oggi, voglio ancora sentir parlare di certe cose... Ci sono tanti, troppi elementi, e quelli veramente interessanti non vengono approfonditi. Ad esempio il discorso sull'intoccabilità delle playlist nelle emittenti radio, oppure il Festival di Sanremo, di cui Luzzatto Fegiz è senz'altro uno dei massimi esperti, ma al quale in questa sua fatica ha riservato un'attenzione marginale, a meno di non considerare fondamentali le rivelazioni circa la vera professione del notaio dell'edizione 1975 della rassegna: un'altra delusione in tal senso, sulle orme di Gigi Vesigna, storico direttore di TV Sorrisi e Canzoni e autore di un libro sul Festival, "Vox populi", incredibilmente ricco di inesattezze e svarioni anche clamorosi. Due che a Sanremo sono stati di casa per lustri, che dovrebbero esserne enciclopedie viventi e custodirne anche segreti più o meno scottanti, e che invece sulla materia si mostrano sempre fin troppo restii a donare il loro "sapere", e non se ne capisce il motivo. Sinceramente, e ritorno al punto di partenza, non ho capito dove il critico volesse andare a parare, con questa sua performance: spunti a bizzeffe gettati alla rinfusa in un calderone il cui fuoco, però, appare troppo debole per alimentare una sceneggiatura disarticolata. Balla e canta sul palco, Fegiz, e fa perfino tenerezza: è apprezzabile che un professionista pienamente realizzatosi tenti, superati i sessant'anni, un'avventura in un nuovo territorio artistico, e del resto l'istrionismo del giornalista era già noto: fu lui uno dei deus ex machina di "Mister Fantasy", una delle trasmissioni più innovative nella storia della tv, alla quale molti programmi nati dopo devono molto. Qui, però, manca la polpa, e certo non può bastare a salvare il tutto l'ospitata conclusiva di Fausto Leali, giunto a presentare il suo ultimo libro e a cantare "Mi manchi" dal vivo su base (come nei Sanremo degli anni Ottanta), raccogliendo meritati applausi ma risultando, tutto sommato, fuori contesto. Già, ma qual era, alla fine, il contesto rappresentato da "Io odio i talent show"?
Recensioni dal teatro - "io odio i talent show": un fegiz senza bussola
Creato il 12 febbraio 2014 da CarlocaCosa voleva dimostrare esattamente, Mario Luzzatto Fegiz, col suo spettacolo teatrale "Io odio i talent show"? Quale messaggio voleva lanciare? Certo, il titolo prometteva bene: sintesi estrema, cruda, eppure efficace di un autorevole punto di vista sul principale fenomeno musical - televisivo del ventunesimo secolo. Inevitabile che lo spettatore, soprattutto chi come me segue con particolare interesse le vicende del mondo delle sette note, si accosti a una tale rappresentazione con curiosità, attendendosi in primis una presa di posizione decisa, articolata e documentata sui vari "Amici", "X Factor" e giovane compagnia... cantante e (tele)votante. Non solo: trattandosi di uno dei più popolari, discussi e"implacabili" critici musicali degli ultimi quarant'anni, altrettanto lecito sarebbe stato chiedere di essere condotti per mano in un viaggio tra i segreti più o meno scottanti del sottobosco discografico nostrano. Nulla di tutto questo, o quasi. L'argomento talent, potenzialmente vastissimo e complesso, si esaurisce nella parte iniziale dello spettacolo (che ho visto nei giorni scorsi al teatro Arca di Milano), certo non senza un'apprezzabile dose di autoironia ("Odio i talent - afferma Fegiz - perché hanno posto fine alla dittatura della critica"). Dopodiché, si parte per la tangente di un flusso scoordinato di ricordi e aneddoti. Che ci stanno, per un mostro sacro del giornalismo musicale, ma un minimo di filo logico lo si pretenderebbe. Non c'è un criterio di narrazione autobiografica che guidi e ordini il dispiegarsi dello show; il succoso spunto iniziale, quello dei talent, si annacqua ben presto e perde consistenza, scavalcato da altri flash, da altri episodi pescati nella memoria del giornalista, quasi come se il marinaio Fegiz, una volta lasciato il porto, perda immediatamente la bussola non riuscendo più a orientarsi, a dare organicità al suo corposo background, vinto dall'ansia di raccontare più fatti possibile nel ridotto tempo della messa in scena. Contrappuntati dagli inserimenti musicali del chitarrista Roberto Santoro e del fisarmonicista Vladimir Denissenkov, ecco rivivere gli esordi radiofonici del critico, da speaker ispirato ai modelli americani, le avventurose cronache dei grandi concerti anni Settanta, quando il pubblico dei live contestava sistematicamente, anche in modo violento, gli artisti sul palco, dai Santana a De Gregori; c'è poi l'omaggio a Lucio Dalla e c'è pure l'incontro con Mogol, fino a una discutibile (e mi tengo basso...) parentesi dedicata a Luigi Tenco, e al fatto che scrivere un libro su di lui abbia portato alla prestigiosa firma del Corriere una scalogna immensa e sistematica. Neanche per scherzo, al giorno d'oggi, voglio ancora sentir parlare di certe cose... Ci sono tanti, troppi elementi, e quelli veramente interessanti non vengono approfonditi. Ad esempio il discorso sull'intoccabilità delle playlist nelle emittenti radio, oppure il Festival di Sanremo, di cui Luzzatto Fegiz è senz'altro uno dei massimi esperti, ma al quale in questa sua fatica ha riservato un'attenzione marginale, a meno di non considerare fondamentali le rivelazioni circa la vera professione del notaio dell'edizione 1975 della rassegna: un'altra delusione in tal senso, sulle orme di Gigi Vesigna, storico direttore di TV Sorrisi e Canzoni e autore di un libro sul Festival, "Vox populi", incredibilmente ricco di inesattezze e svarioni anche clamorosi. Due che a Sanremo sono stati di casa per lustri, che dovrebbero esserne enciclopedie viventi e custodirne anche segreti più o meno scottanti, e che invece sulla materia si mostrano sempre fin troppo restii a donare il loro "sapere", e non se ne capisce il motivo. Sinceramente, e ritorno al punto di partenza, non ho capito dove il critico volesse andare a parare, con questa sua performance: spunti a bizzeffe gettati alla rinfusa in un calderone il cui fuoco, però, appare troppo debole per alimentare una sceneggiatura disarticolata. Balla e canta sul palco, Fegiz, e fa perfino tenerezza: è apprezzabile che un professionista pienamente realizzatosi tenti, superati i sessant'anni, un'avventura in un nuovo territorio artistico, e del resto l'istrionismo del giornalista era già noto: fu lui uno dei deus ex machina di "Mister Fantasy", una delle trasmissioni più innovative nella storia della tv, alla quale molti programmi nati dopo devono molto. Qui, però, manca la polpa, e certo non può bastare a salvare il tutto l'ospitata conclusiva di Fausto Leali, giunto a presentare il suo ultimo libro e a cantare "Mi manchi" dal vivo su base (come nei Sanremo degli anni Ottanta), raccogliendo meritati applausi ma risultando, tutto sommato, fuori contesto. Già, ma qual era, alla fine, il contesto rappresentato da "Io odio i talent show"?
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