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- Pubblicato Friday, 27 June 2014 12:00
- Scritto da Andrea Schiavone
La Casa del Gufo è l’opera prima di Fausto Marchi, un romanzo d’esordio che, in quanto tale, presenta inevitabilmente i suoi punti deboli, ma che di contro fa emergere soprattutto quei punti forza che lasciano trasparire un’abile capacità fabulatoria ed una vasta conoscenza dei codici narratologici che spaziano dalla letteratura trascendentale di Poe a chiare influenze decadentiste, fino a brevi incursioni nella letteratura post-moderna.
È la storia di un uomo incastrato in una stasi esistenziale vuota e sterile, quella che prende vita in queste pagine; un flaneur che si aggira nella fatiscente Roma contemporanea, tra atmosfere fredde, cupe, in un tempo stagnante, come sospeso tra le elucubrazioni dell’uomo ed il greve passato di cui si fanno carico i luoghi, i monumenti e i quadri di cui è satura la città. Ma è una stasi che sottende forze tensive, che la ben calibrata narrazione di Marchi fa deflagrare in un finale stravolgente. Una strategica orchestrazione in funzione della conclusiva rivelazione destabilizzante.
Sono infatti oscuri desideri repressi quelli che smuovono l’anima del protagonista, come una forza entropica che inevitabilmente porterà ad uno svelamento, un cambiamento, una rinascita.
Ma Marchi si spinge oltre, nella sua minuziosa descrizione della vuota quotidianità, che arriva a sviluppare prolungate divagazioni sull’arte, la letteratura e la religione (dei veri e propri mini-saggi), riuscendo a rendere quelle atmosfere e quell’empatia verso un uomo che tutto sommato continua a nasconde al lettore come a se stesso un segreto, irrivelabile, inaccettabile, ma a cui dovrà bene presto far fronte.
Il riferimento ai soggetti dei dipinti di Roberto Ferri rafforza l’immersione del lettore in una psiche dalla distorta percezione. Quelle di Ferri sono infatti le eterne immagini della donna castrante, dall’aspetto distruttivo: «Anche le sue sirene esulano dall’iconografia classica e rassicurante; esse sono esseri abissali, portatrici di voluttà e di morte, avviluppatrici di maschi attraverso la morsa delle loro pinne caudali», scrive Marchi, e non si può non pensare alla sensuale e inquietante Naiade o alle angeliche dame dallo sguardo demoniaco. Una speculare immersione incubica in cui ci ritroveremo catapultati nell’episodio del ristorante di pesce con l’influsso sensuale e angosciante della misteriosa Pheba.
Una forza occulta sembra guidare il destino dell’uomo, fino all’incontro con quell’icona rivelatrice, quel gufo che rimanderà immancabilmente all’emblema del demone femminile per eccellenza: la Lilith sumerica.
Marchi sfrutta quindi un immaginario iconografico e letterario che spazia da Ferri a Saturno Buttò, da Baudelaire a De Sade, in un racconto che si dipana lungo un vero e proprio fil rouge. Un rosso legato al sangue e al passato, che come un morbo riemergerà progressivamente fino all’inaspettato incontro/scontro con i demoni dell’infanzia.
Una lettura piacevole e ricca di spunti. Consigliata!
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