No. 19 - The motives for all crimes in detective stories should be personal. International plottings and war politics belong in a different category of fiction - in secret-service tales, for instance. But a murder story must be kept gemütlich, so to speak. It must reflect the reader's everyday experiences, and give him a certain outlet for his own repressed desires and emotions.
(N. 19 - I moventi dei crimini nei romanzi polizieschi devono essere esclusivamente personali. Complotti internazionali e azioni di guerra fanno parte di un'altra categoria di romanzi, quelli di spionaggio, ad esempio. Ma un romanzo giallo deve mantenere un carattere intimo, per così dire. Deve riflettere le esperienze quotidiane del lettore, ed offrire uno sfogo ai suoi desideri ed emozioni represse.)
Mi scuso e mi prostro, Vostra Giallezza, per avere indegnamente trascurato le ultime due regole negli ultimi mesi. Ma i miei pochi neuroni sono stati in altre faccende affaccendati, e si sa, pocoimporta quanto superficiali siano, se quelle poche cellule (sempre meno: anche nel momento in cui scrivo stanno calando inesorabilmente) le ritengono importanti.
Si parla di altre sezioni del blog, ma anche di intensi rapporti con altri blogger, conosciuti a pelle o meno, ed è con un certo senso di gioia poco stupita che mi rendo conto della mutazione genetica irreversibilmente intervenuta ormai in me così come nei miei interlocutori (suppongo a buon diritto, visti i risultati) dopo l’avvento del Web 2.0: di potere cioè interloquire in rete con persone fisiche – conosciute anche de visu o meno – con la stessa sincerità, lo stesso trasporto e la stessa passione, nonché traendone la stessa soddisfazione intellettual-emotiva, che ci sarebbero in un salotto fisico invece che virtuale.
L’antitesi dramma pubblico / dramma privato, diceva dunque il Nostro.
Però io non li vedo, questi due poli opposti. Ci vedo piuttosto un continuum, una retta molto, molto lunga, ma non infinita, che va dal massimo del collettivo (un thriller storico sulla Seconda Guerra Mondiale, Enigma di Robert Harris per esempio - 1995) al massimo dell’intimismo (un thriller psicologico come La camera azzurra, tra i capolavori di Simenon - 1964).
Obietterei innanzitutto che il mondo del giallo intimista non è automaticamente garanzia che vengano riflesse le esperienze quotidiane del lettore (...) e che si offra uno sfogo ai suoi desideri ed emozioni represse. Al contrario, ci si potrebbe ritrovare una situazione misteriosa brillantemente esposta ma priva di mordente, soprattutto quando l’ambientazione è troppo chic per identificarvisi e l’approfondimento psicologico troppo patinato e superficiale per appassionare.
Penso per esempio al Falcone maltese (1930) e all’Uomo ombra (1934) di Hammet, recentemente letti: deliziosi da molti punti di vista, senza dubbio, ma tra un party, un martini e un whisky di doppio malto pare di trovarsi in una commedia di Noel Coward... il che in un giallo non si fa.
Nel thriller politico ci saranno invece protagonisti con una loro psicologia, ma soprattutto ci sarà l’intersecarsi dei loro drammi privati con quelli pubblici (la guerra, la condizione di spie, il doppio gioco, la fame, la lealtà al proprio Paese, la politica e la ragion di Stato etc. etc.) e, per forza di cose, il prevalere del conflitto pubblico su quello intrapersonale.
Sempre per forza di cose, la psicologia di questi personaggi non potrà essere che riduttiva, schematizzata, al limite dello stereotipo (la femme fatale, l’eroe valoroso e leale, il cattivo doppiogiochista, il leader carismatico...). Mal che vada, avremo come portata principale una storiella Harmony con contorno di patate lesse e sfilacci di nazismo crudi.
Quale piacere ne trarrà il lettore? Innanzitutto di approfondire un’epoca storica di cui ritiene di non sapere abbastanza o, al contrario, che conosce sufficientemente bene da voler valutare come un’opera di fantasia la rappresenterà – anche per la soddisfazione impagabile di rilevare errori, approssimazioni e fanfaronate del romanziere e di sentirsi superiore a lui.
Potrà inoltre appassionarsi ai destini di personaggi grondanti romanticismo e idealismo, contrapposti ad altri crudeli e spietati quanto basta, palpitando nella speranza che il bene (rappresentato di solito dall’Occidente, un Occidente rigorosamente anglosassone, Wasp e capitalista) trionfi a spese del male (identificato di solito in un Terzo Reich o, al limite, in un qualsiasi altro regime dittatoriale e totalitario, sia esso comunista, teocratico o di fantasia).
Può un romanzo costruito su queste basi funzionare? Certo, se ben architettato.
Può essere anche un buon giallo? Dipende.
Non sono assidua lettrice di questo genere, e in generale non considerei gialli i thriller di Martin Cruz Smith come Gorkij Park (1981) – i cadaveri sono solo un pretesto per approfondire il tema della Guerra Fredda – o le spy-stories di Ken Follett e Frederick Forsyth, né tantomeno i Bond di Ian Fleming.
Un discorso a parte meriterebbe Graham Greene, dove l’approfondimento psicologico è finissimo e la scrittura eccezionale, ma pochi dei suoi romanzi contengono un mistero giallo vero e proprio. Al contrario, Greene, scrittore dell’opacità, è maestro nell’imbastire trame sul mistero dell’individuo, dei suoi comportamenti irrazionali, imprevedibili, imprescrutabili fino alla fine; e non gli serve un omicidio per farlo.
The constant gardener di Le Carré (2001) potrebbe essere un buon esempio, visto che gli enigmi non sono solo la personalità della protagonista e la sua passione politica, ma anche la domanda: chi, dei suoi tanti nemici, l’ha uccisa e perché?
Mi viene in mente anche, tra le mie ultime letture, Il ghost writer (2007), sempre del già citato Harris: una bella trama thriller ispirata nemmeno tanto velatamente alle ambiguità dell’ex premier inglese Tony Blair e della moglie, qui identificata nientemeno che come spia!
In definitiva, caro Van Dine: mi scuserà ma, laddove lei vede bianco e nero, io scorgo infinite sfumature di grigio. Ma forse ai suoi tempi i generi erano tagliati con l’accetta... oggi viviamo in tempi sfilacciati.