ROMA – Tre monologhi inediti di Neil LaBute, uno degli autori più rappresentativi dell’era post Mamet, tradotti dallo stesso regista in collaborazione con Gianluca Ficca.
Debutterà l’11 Aprile “Re(L)azioni“, per la regia di Marcello Cotugno e interpretazione di Bianca Nappi, al Teatro Impero di Trani per poi proseguire al Teatro Spazio Uno di Roma dal 23 aprile al 5 maggio.
Dopo Bash del 2001 e La forma delle cose del 2005, sempre scritti da LaBute, con Re(L)azioni Marcello Cotugno torna a rappresentare l’autore americano, portando in scena tre monologhi al femminile, interpretati da Bianca Nappi, attrice nota al pubblico cinematografico per le recenti interpretazioni nei film di Ferzan Ozpetek.
La violenza è il tema centrale dei tre monologhi, violenza intesa come manipolazione di una realtà soggettiva e come reazione – spietata fino al grottesco – a un torto subito.
Sia che si tratti di relazioni interpersonali, come nei primi due monologhi Totally e Bad Girl, sia che si parli di intolleranza etnica o religiosa, come in The War on Terror, LaBute mette in luce l’amaro paradosso di reagire alla violenza con maggiore violenza, come fanno le tre protagoniste di queste tre ironiche e minimali tragedie contemporanee.
In una nota il regista ha spiegato: “La scelta di rappresentare tre monologhi di Neil LaBute è nata dal mio desiderio di investigare la violenza nel suo aspetto più banale e brutale, così come si cela dietro la superficie di ciascuno di noi, affondando le proprie radici anche nel più normalizzato e tranquilizzante humus sociale. Un argomento, questo, che l’autore americano tratta, in questi testi come in altri, in maniera acuta e pungente“.
Totally, il primo dei tre monologhi, narra la vicenda tristemente ironica di una ragazza che, scoperto il tradimento del fidanzato mentre aspetta un figlio da lui, decide di attuare nei suoi confronti una spietata vendetta. Il gesto disperato e assurdo della ragazza diventa per LaBute metafora delle moderne reazioni-relazioni uomo/donna: non c’è dialettica tra i due amanti, solo un’azione spietata e paradossale, un gioco crudele, che rivela agli spettatori, come in uno specchio, il superficiale legame che intercorre tra loro e gli istinti primordiali che lo sottendono.
Bad Girl, il monologo centrale, è una lunga telefonata, in cui l’attrice, dal suo camerino – quasi ad anticipare il meccanismo del teatro nel teatro che si svilupperà nel terzo brano – elargisce consigli ad una amica abbandonata dal fidanzato, ostentando la gloriosa quanto insensata leggerezza della sua sessualità compulsiva, nichilisticamente consumata con degli ignari “sfigati” pescati a caso da Blockbuster o in qualche pub di periferia.
War on Terror, il terzo monologo (il cui titolo cita quello di un noto videogioco di guerra), prende spunto dalle strategie americane post-11 settembre per parlare di intolleranza. In scena c’è una giovane donna, il cui fidanzato è morto in Iraq. Rivolta al pubblico, con in mano una bandiera americana a cui si aggrappa in ricordo di lui, si lancia in un’invettiva spietata quanto esteriore al mondo islamico: la sua rabbia è nutrita non tanto dal dolore per la propria perdita, quanto dal qualunquismo livoroso e rivendicativo assorbito attraverso un’educazione miope e piccolo-borghese. Ma la donna non è (solo) quello che sembra. Il suo monologo si interrompe infatti quando i suoi occhi individuano, nel buio della sala, un uomo che riconosce. La finzione scenica cade, e la donna – in realtà un’attrice – si rivolge a lui, accusandolo di perseguitarla. Lo sproloquio spietato che riversa sul suo anonimo interlocutore rivela la sua carica di aggressività repressa, il suo desiderio di scagliarsi con violenza marziale contro il ragazzo/stalker che siede silenzioso in sala.