Cosa sono le mani per Rembrandt se non uno strumento della creazione, il dono che permette di porgere altri doni attraverso il lavoro dei pennelli e dei colori? Quante volte, grazie alle mani, si è sentito davvero pieno di una potenza che non è degli uomini, o forse sì, perché evidentemente è degli uomini creare bellezza, spargere bellezza per il mondo, solo che appartiene a momenti così rari che sembrano il frutto di una grazia piuttosto che della capacità.
Rembrandt, il figlio del mugnaio di Leida, l'eretico della pittura, il grandissimo a cui non è bastata l'arte, se è vero che in molti gli hanno voltato le spalle, che è fallito e ha perso la casa, che le malattie gli hanno falciato un affetto dopo l'altro, non solo Saskia, ma anche Tito, il figlio che è un pensiero costante, il bambino ritratto in tanti quadri, ogni quadro un prodigioso atto di amore.
Non basta l'arte, ma l'arte è comunque speranza e consolazione, è l'orizzonte cui guardare, ostinatamente, è la nave che scioglie gli ormeggi dopo la tempesta. Non basta alla vita, ma è la vita che può andare oltre.
Emerge tutto questo in Lo specchio infranto di Stefano Zuffi (Longanesi), il libro che racconta gli ultimi anni di Rembrandt, la sua storia di perdite e sofferenza nell'Olanda del Secolo d'Oro che è anche l'Olanda delle terribili epidemie di peste.
Fermatevi soprattutto sul rapporto con il figlio e sulla sua sfida più temeraria che un artista possa concepire: adoperare le forme, i colori, la luce per restituire vita alla persona amata che non c'è più. Quante cose ci sarebbero da dire, anche se le domande più importanti restano senza risposta.