Ci scusiamo per il ritardo di pubblicazione, il nostro collaboratore Antonio Luiu l’ha spedito puntualissimo, in data 7 settembre, purtroppo ogni tanto qualche email sfugge alla vista e si perde sino al suo ritrovamento. Riteniamo che sia importante diffondere questo resoconto.
Camminava assorto a piccoli passi, nervosamente, intorno alla consolle del fonico, con la sua inseparabile borsa da viaggio su una spalla; voleva accertarsi che tutto, audio e luci, fossero al punto giusto. E qui ti accorgevi del suo perfezionismo, della spiccata sensibilità da formidabile artista visuale concentrato verso i due elementi principali che caratterizzano un evento di ampio respiro artistico: il suono e le immagini di palco. I jazzofili mi perdonino se mi permetto di asserire che ciò che perseguiva Iso, con le sue proposte musicali, non erano solo dei puri e semplici concerti di jazz, erano molto di più.
Non credo di esagerare se paragono le sue proposte alle più alte rappresentazioni d’arte contemporanea di fine Novecento. La creatività di artisti del calibro di Lester Bowie o Famoudou Don Moyè, insuperabili pilastri di una delle più gloriose associazioni di musicisti statunitensi: “Art Ensemble of Chicago”, zampillava fluente dagli splendidi e splendenti di abiti di scena africani. Assistere a questi spettacoli spesso significava entrare in un happening, unico e irripetibile, il che equivaleva a pagare un biglietto di sola andata per un viaggio verso il “qui ed ora”, per un luogo immaginifico senza tempo, senza confini e senza barriere sociali ed etniche.
Antichissime tradizioni popolari come quella africana e mediterranea venivano combinate fra loro, in un unico contesto espressivo dedito alla composizione istantanea, assai caro al free jazz, artisticamente rivolto verso le due Americhe ma anche verso la vecchia Europa nelle forme espressive più avanzate. Questa fu l’intuizione geniale e fulminante di Isio: tentare cioè di mescolare, subito dopo i bollori del ’68, l’avanguardia jazzistica, con la sica etnica della ztici prentare più vento unico, un viaggio senza ritomusica etnica della Sardegna. La cosa ovviamente non decollò subito e registrò diverse difficoltà.
Si potrebbe però dire, in sintesi, che i frutti di quel lavoro ostinato si raccolsero molto tempo dopo, ma senza quegli inizi molti destini personali sarebbero stati certamente diversi, e innanzitutto il suo. Infatti, nel giro di pochi anni, egli passò dalla problematica condizione di migrante, a quella di fotografo di talento e in seguito divenne quel promotore e produttore di grandi eventi culturali che conosciamo. Quella del promoter al tempo era un nuovo tipo di professione, che egli contribuì quasi ad inventare in Italia, modellandola su se stesso e sulla propria cultura.
Su un versante prettamente artistico, Marcello Melis, l’importante contrabbassista cagliaritano trapiantato anch’egli a Roma, sarebbe da considerarsi uno dei principali artefici di questa autentica “fusione a freddo” propugnata da Isio, d’altro canto è pur vero che: Antonello Salis, Riccardo Lay, Mario Paliano, cioè: i Cadmo, forse non avrebbero deciso mai deciso di varcare definitivamente il Tirreno senza l’accogliente approdo, non solo logistico, offerto dal fotografo e operatore musicale ozierese. Si trattava, insomma, di condividere un sogno determinato dalla possibilità di poter vivere esclusivamente di musica, o meglio, suonando la propria musica in ogni dove, insieme ai più celebrati interpreti internazionali del momento.
Ma certamente fu l’ inizio di un lungo processo creativo ancora in fieri, dal quale si formarono in Sardegna i nomi più prestigiosi del jazz internazionale.
Ed ovviamente non si può che citare per primo Paolo Fresu, divenuto ormai un’icona di fama mondiale, noto anche come organizzatore del festival più esclusivo e prestigioso, “Time in Jazz”, a Berchidda, e oggi anche in molte altre località del nord Sardegna. Segue a ruota, e questo già sarebbe un grande onore, Enzo Favata, anch’egli ormai lanciato con successo verso commistioni di repertori un tempo improponibili: jazz creativo e free , musica tradizionale sarda, musica da banda e perfino inni patriottici italiani. Infine mi sembra doveroso menzionare nella prestigiosa pletora di artisti che c’e hanno fatta, Gavino Murgia, un solista davvero originale e capace che da oltre vent’anni è riuscito a fondere tradizione sarda, jazz e improvvisazione.
E poi, fra i grandi interpreti sardi, divenuti celebri per aver abbinato tradizione sarda e innovazione, non si possono eludere nomi come Antonello Salis, Riccardo Lay, Paolo Carrus, Salvatore Majore, Battista Giordano, Marino Derosas, Paolo Angeli e l’elenco sarebbe ancora molto lungo.
Tutto però in Sardegna ebbe inizio negli anni ’80 con la prima rassegna musicale avente forma di circuito, un format, come orribilmente si direbbe oggi, e se non sbaglio s’intitolava : “I Suoni della Memoria”. I cartelloni di questi concerti erano compositi e comprendevano i più affermati gruppi di folk e rock progressive del momento, e ovviamente il piatto forte era il jazz d’avanguardia nordamericano. Però vi trovavano anche spazio le prime formazioni locali di folk revival: come “Suono Officina”, fra i quali Elena Ledda, Mauro Palmas, Alberto Cabiddu, ancora in piena attività artistica
Poi spinti da questa lunga ondata innovativa, posti però più sul versante del folk revival sulle orme delle formidabili esperienze di gruppi nazionali come Area e PFM, a Milano, Canzoniere del Lazio, a Roma, Nuova Compagnia di Canto Popolare a Napoli; in Sardegna, oltre i già affermati “Suono Officina” di Cagliari, presero rapidamente forma “Cordas et Cannas” , a Olbia e qualche anno dopo Alghero rispose con i “Calic”. In quest’ultima formazione ho avuto l’onore di collaborare per quasi vent’anni, e fu un’esperienza vibrante che ancor oggi risuona dentro.
Perciò grazie, grazie di cuore Isio, per avermi cambiato la vita.
Written by Antonio Luiu