Renato Fucini, A Pisa “primo tuffo nel mare della vita”

Da Paolorossi

Pisa – Lungarno – Ponte di Mezzo

Il 10 novembre dell’anno 1859, accompagnato da mia madre, vidi per la prima volta quella dolce Pisa alla quale, da qualche anno, per i racconti di mio padre, per quelli degli amici che mi vi avevano preceduto, per i versi del Giusti e per le leggende che della lieta baraonda andavano in giro sulle bocche di tutti, tenevo rivolti gli occhi del cuore con la esaltazione d’un innamorato. Pioveva ed era freddo; la città era silenziosa e deserta, eppure il cielo di Palermo e di Napoli non mi è mai sembrato nè più sereno nè più tepido di quel triste cielo di novembre; nè altra città mi è sembrata mai più allegra e popolosa di quel che fosse il deserto di Pisa in quel soave pomeriggio piovoso.

Pisa – Caffè dell’Ussero

 Il mio entusiasmo era silenzioso. Tutt’e due fradici e inzaccherati, mia madre ed io, giravamo per Pisa in cerca d’una camera da prendersi in affitto. Dopo aver molto girato inutilmente, incontrammo il mio cugino Davide Gei di Calci, allora studente in quelle scuole comunali, il quale mi offerse di andare ad allogarmi con lui da una vecchina magrina magrina, in una Casina piccina piccina posta in via Cariola, presso il Portone, dinanzi alla casa Barboni, dove in una cameraccia stretta stretta v’era un lettone grande grande per dormirci tutti e due, tre seggiole, un cassettone, un tavolino sgangherato, e basta. Piacque la via, piacque la compagnia del mio cugino, e, non essendo dispiaciuta neanche la somma mensile di cinque paoli (Lire it. 2,80!) chiesta per l’affitto, tutto fu convenuto e stabilito, e la sera dopo ne presi possesso.

Pisa – Caffè dell’Ussero

Concluso l’importante affare, andammo a cena alla Cervia, di lì al Caffè dell’Ussero, dove ebbi la prima conferma di quello che mi aspettava, guardando dal mio stretto incognito la folla rumorosamente gioconda degli studenti che gremivano il locale. Prima di tornare al nostro alloggio, volli avere un ricordo di quel giorno; e fermatomi all’appalto sull’angolo dei Lungarni con via della Sapienza, comprai una pipa di legno che conservo tutt’ora e che da pochi anni ho messo in un meritato riposo. Conservatela quella pipa a me tanto cara e tramandatela ai posteri più lontani. Con quel puzzolentissimo arnese in bocca, ho trascorso i giorni più belli della mia vita sul mare, nei boschi, nei paduli e sui monti.

Pisa – Via della Sapienza

 […] Vissi senza sopportare gravi privazioni, senza sfigurare troppo fra i miei compagni, alcuni dei quali molto ricchi e lautamente provvisti, senza far un centesimo di debito e senza lamentarmi. Conoscevo quello che guadagnava mio padre a quei tempi, e ciò mi bastava per sapermi regolare. Alla trattoria, le pietanze che costavano meno ed empivano molto erano quelle che più mi piacevano; il vino m’incaloriva, i poncini, peggio che mai; il sigaro mi faceva sputar troppo e lo sostituivo con la pipa; le gambe le preferivo sempre alle vetture perchè avevo bisogno di moto; da molte cene e ribotte dispendiose mi astenevo perchè non mi sentivo bene; i vagoni di seconda classe li scansavo come la peste perchè nell’estate v’era troppo caldo, nell’inverno erano troppo chiusi; per vestirmi, davo la preferenza, patriotticamente, ai tessuti nostrali e specialmente a quelli più ordinari.

 […] A Pisa ho passato i più begli anni della mia vita. Sbucato fresco fresco dalle stoppie di Dianella e dai boschi di Vinci, e arrivato come un puledro selvaggio in mezzo a tanta allegria e tanta nuova baraonda, mi sarei trovato, sul primo, quasi sgomento se i racconti uditi da mio padre e le leggende che correvano allora sulla vita pittoresca dello studente universitario non avessero confortato il mio cuore, avido di vivere e di godere, a farmi sicuro che lì avrei trovato il vero pane per i miei denti. E ce lo trovai! Superate le prime difficoltà di farmi accettare nella compagnia dei più intelligenti e più rumorosi che avevo subito adocchiato, incominciai a trovarmi al mio posto. Ma le difficoltà non furono nè poche nè lievi. Imbacuccato in abiti grossolani più lunghi e più larghi del vero perchè fatti, come si suol dire, a crescenza, mi vedevo guardato con sprezzante diffidenza tutte le volte che mi accostavo alle loro comitive, e il colmo dell’umiliazione dovevo provarlo quando, imbrogliato dalla soggezione e impastoiato dal gran desiderio di far capire con la parola che anch’io valevo qualche cosa, non mi venivano alla bocca che semplici e stentate espressioni le quali non mi fruttavano che sghignazzate di benigno compatimento e voltate di spalle. E rimanevo solo a rodermi di sconforto e di rabbia.

Pisa – Via della Sapienza

Ma tutto questo me lo meritavo per punizione d’aver messo la mira un po’ troppo alta. Il mio guscio era rozzo, ma dentro avevo già il germe di quei sentimenti che mi hanno portato a idolatrare l’ingegno e la finezza d’animo e a sentir ritegno per i cervelli duri e per le anime triviali. I miei sguardi si erano posati su quello che di meglio era arrivato a Pisa dalla Toscana e specialmente da Firenze e da Livorno. Non voglio rammentare i nomi dei miei più cari amici; ma posso compiacermi di dire che molti si sono innalzati sulla folla dei mediocri, alcuni sono giunti alla celebrità, tutti sono diventati uomini utili al Paese, pochissimi i perduti nel vizio e nel disonore.

La mia posizione me la assicurai finalmente la sera che fui indotto a pagare il noviziato. Trascinato nel caffè dell’Ussero e obbligato a placare a suon di ponci una folla d’assetati, bevvi anch’io, mi riscaldai e parlai…, Pare che parlassi assai bene perchè mi sentii acclamato, fui portato in trionfo per un buon tratto dei Lungarni, e da quella sera ebbi voce in capitolo fra tanta geniale canaglia.

E quel giorno ebbe principio la prima serie dei più belli anni della mia vita. Dico prima serie perchè altre ne ebbi e non poche; ma il ricordo di quella è rimasto più caldo nella mia memoria come il ricordo del primo amore. E ora vorrei, ragazzi miei, vorrei descrivervi con la mia povera penna le dolcezze di quel primo tuffo nel mare della vita, la febbre della gioia e della contentezza, che avevo sempre ad altissimo grado; e le burle e le chiassate e la sconfinata e spensierata libertà, e il godimento di quegli studj (perchè tanto io quanto i miei amici sapevamo trovare anche il tempo di non far buttar via ai nostri genitori i denari), in fondo ai quali mi pareva di vedere, sognando, non impieghi e quattrini come sognano i bottegai, ma le grandi soddisfazioni dell’intelligenza e del cuore e il roseo fantasma della gloria. Vorrei descrivervi tutto questo minutamente, e lo farei divertendomi, ma lo stato del mio animo in questi anni della mia vecchiaia è tanto colmo di sconforto quanto le mie membra sarebbero piene di salute. E in tale stato d’animo mi sento ghiaccio e non posso andare innanzi con questo scritto. Ormai la mia genialità è morta da molto tempo.

(Renato Fucini, A Pisa (dal 1859 al 1863) – Foglie al vento)


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