Renato Lucchini in mostra a Spazio Tadini con VERSO LA CITTA’. 17 aprile 2013

Creato il 06 aprile 2013 da Spaziotadini
Riccardo Luchini a Spazio TadiniRiccardo Luchini a Spazio TadiniRiccardo Luchini a Spazio TadiniRiccardo Luchini a Spazio TadiniRiccardo Luchini a Spazio Tadini

Verso la città

Inaugura a Spazio Tadini il 17 aprile alle ore 18.30 la mostra di Renato Luchini artista toscano che torna a Milano con una personale sul tema a lui caro: la città. Purtuttavia, in questo caso, la sua mostra è inserita in un contesto particolare in cui espongono, in contemporanea un altro artista Alessandro Docci e Renato Cerisola. Il primo pittore che rappresenta in modo originare le cartine topografiche delle città e il secondo un fotografo che offre all’osservatore una visione ricca di colori e movimento.

“La città di Luchini è osservata dalle zone di transito, dalle periferie agli snodi ferroviari, dalle strade di percorrenza  alle ragnatele di cavi elettrici che la “imprigionano”. Una città grigio su grigio, tono su tono, un solo tono. Un solo suono, quello del rumore: del fischio dei treni, dei freni, delle gomme sull’asfalto che rallentano agli incroci. Solo odori grigi: quello dello smog, dei gas di scarico, del ferro dei binari, del fumo, della nebbia che addensa l’aria, quel grigio delle nuvole cariche di una pioggia che cade solo su asfalto che non assorbe e non alimenta la terra, ma produce acque reflue che ammorbano. Luoghi in cui gli esseri viventi lasciano solo le loro orme di passaggio, le loro ombre: non ci sono, non si vedono, si immaginano soltanto. Eppure dovrebbero essere in molti, perché ci sono decine e decine di binari, decine e decine di collegamenti, di snodi, di strade, pronte a offrire un attraversamento, un ingresso e/o un’uscita. Chi percorre o ha percorso quelle strade? Chi entra in quelle città e vi si perde? Chi fugge da quei luoghi per abbandonarli? Le città di Luchini sono solo dei transiti che conservano il ricordo di chi è passato, di chi si è costruito un passaggio nella giungla urbana e forse ne è uscito o ne è rimasto imprigionato per sempre.

Fa freddo in quelle città. Un freddo che non appartiene alle stagioni, ma all’interiorità. Un freddo che sporca l’azzurro del cielo e lo copre fino all’orizzonte senza lasciare spazio alla luce, tanto da non permetterle di delineare i contorni delle cose. Così la figurazione di Luchini si trasforma in astrazione, in forme geometriche: spazi.

Eppure le stazioni sono luoghi di incontro tanto quanto le strade. Lì la gente non manca mai, fosse solo un barbone solitario accucciato nel suo sacco a pelo in una notte gelida d’inverno.

Perché non c’è tempo per fermarsi in quelle vie di percorrenza? Perché non c’è sosta, non c’è respiro? Forse perché non ci sono piante, né alberi che ossigenano, ma solo costruzioni che hanno fatto tabula rasa di ogni elemento naturale, di ogni elemento vivente. La vita è altrove, nell’immaginario, non in quei luoghi, sebbene studiati e pensati per collegare, comunicare, ricevere. La vita è comunque oltre quella strada e non a quella fermata del treno. Non è un caso per Luchini, ma una scelta: la Natura, con i suoi ritmi, i suoi colori, i suoi respiri è altrove. Per Luchini è come se l’uomo avesse costruito tutte queste città non per viverci, ma per andare via. Anzi, forse è già andato via e sono solo archeologia urbana, fantasmi dell’operosità dell’uomo portata all’eccesso che Luchini immortala per ricordare, o forse solo per demonizzare, la possibilità che la vita possa abbandonare quel mondo artificiale costruito dall’uomo in cui non c’è spazio per alberi, prati e animali.

Scrive di Lui il critico Ludovico Geirut: “ Il messaggio di Luchini è a mio avviso straordinariamente chiaro e profondo. Le opere dell’uomo, per quanto importanti e portatrici di migliori condizioni di vita, se dirette alle sole necessità materiali della vita e informate esclusivamente al procedere della tecnologia e se non considerano anche e/o non sono in grado, soprattutto, di dare all’umanità risposte adeguate ai bisogni dello spirito, creano drammaticità e vuoto, con il risultato di “trattenere” l’individuo in una sospensione di immobilità dello spirito e di quasi prigionia delle sue stesse realizzazioni. Mi sembra, dunque, che dalla densa atmosfera metafisica dei suoi dipinti emerga chiara l’attesa e l’urgenza di condizioni di libertà vera per l’uomo, una richiesta di poterci, noi tutti, muovere su strade meno organizzate da forze a noi esterne e imposte dalla troppo concreta sapienza costruttrice dell’uomo e dalla dottrina imperante del profitto, per lasciare spazio all’insostituibile necessità del respiro dell’anima che, vera base di libertà, si nutre di concetti, simboli e significati reconditi ed eterei, fatti delle aspirazioni del pensiero”. (Melina Scalise)


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