Renzi a caccia dei soldi del PD (...spero che non voglia "spartire" con Berlusconi...)

Creato il 12 novembre 2014 da Tafanus

...quando qualcuno vi dice che "non è per i soldi, ma per il principio", è per i soldi... (Molière)


Minacce di scissione, piazze contrapposte. E si annuncia una nuova guerra per la cassa dei Ds. Valore: oltre mezzo miliardo di euro. Matteo la reclama per avere il totale controllo del partito (di Marco Damilano - l'Espresso)
Caccia a Ottobre rosso in tre mosse, la prepara Matteo Renzi dopo una settimana di cortei, manifestazioni, raduni alla stazione Leopolda, insulti in piazza, minacce di scissione. Primo: stanare la minoranza interna del Pd sul Jobs Act in votazione alla Camera. Secondo: esasperare le differenze fino a provocare la rottura. Terzo: mettere le mani sull’eredità del passato, non soltanto culturale, ma materiale. Il finanziere Davide Serra, uno dei volti della Leopolda, martedì 28 ottobre si è iscritto ufficialmente al Pd. Iscrizione pesante sul piano simbolico, ma leggera per le casse del partito: sul conto del circolo dei democratici londinesi sono arrivati15 euro.
Nulla in confronto a quanto sta per scatenarsi nel cuore del partito. Qualche giorno fa i segretari cittadini del Pd hanno ricevuto una mail di convocazione, sono invitati il 4 novembre a un incontro nella sede nazionale di largo del Nazareno con il tesoriere del Pd, il deputato renziano Francesco Bonifazi. L’ordine del giorno, com’è nello stile Renzi, non lascia spazio ad ambiguità: è venuto il momento di incamerare il tesoro degli ex-Ds, che dopo sette anni di vita del Pd ancora sfugge completamente al controllo del partito. Un patrimonio di 2300 immobili più 410 opere d’arte stimato in oltre mezzo miliardo, di proprietà della rete delle 55 fondazioni costituita dall’ex tesoriere dei Ds senatore Ugo Sposetti dai nomi fantasiosi: Bella Ciao di Ravenna, Canavese Democratico, Avvenire di Como... Un bene sensibile, un valore non negoziabile, altro che articolo 18, gli affetti più cari. Il paradosso di un partito vivo (il Pd) che in molti casi paga l’affitto a un partito sulla carta defunto sette anni fa. Per impedire che sezioni, palazzi e “I funerali di Togliatti” di Renato Guttuso siano assorbiti dal Pd renziano Sposetti è pronto a combattere: «Sto sereno!». Bilancio 2013 alla mano, nega l’esistenza della dote. «Gli immobili valgono 1 milione e 300mila euro, pignorati. I debiti arrivano a 157 milioni». Cifre che riguardano la sede dei Ds di via Nazionale e non le altre fondazioni in Italia. Ma Sposetti resiste. In attesa che succeda qualcosa.
«Qualcosa di nuovo nascerà a sinistra». A dirlo non sono i presunti capi di un’ipotetica scissione, accorsi alla manifestazione della Cgil di piazza San Giovanni, gli ex candidati alla segreteria Gianni Cuperlo e Pippo Civati, gli ex bersaniani Stefano Fassina e Alfredo D’Attorre. A prevederlo, è stato alla Leopolda chi negli schemi classici sarebbe la vittima annunciata, il premier-segretario Renzi. Ma nella caccia a Ottobre Rosso le parti sono invertite, Renzi è il predatore, i dissidenti sono la selvaggina.
Nelle vecchie liturgie il segretario di turno faceva sfoggio del cosiddetto spirito unitario, per far ricadere addosso a chi se ne andava la responsabilità della rottura. Chi rompeva l’unità si macchiava di una colpa terribile: aveva creato le condizioni per una vittoria della destra. Nel nuovo Pd è tutto cambiato: la destra non è più un problema, il nemico dichiarato di Renzi è a sinistra, sono i sindacati, i reduci, quelli che usano ancora il gettone e il rullino, gli intellettuali che si lamentano di tutto e somigliano al brontolone «pensionato del quartiere». Un ostacolo da saltare, una zavorra da eliminare, per procedere alla vera operazione: la fondazione del Partito della Nazione Renziano aperto all’elettorato moderato in cerca di casa. Una scissione a sinistra del Pd darebbe maggiore credibilità alla creatura.
La prospettiva galvanizza i renziani e atterrisce i candidati alla scissione. La banda dei 4 (Cuperlo, Civati, Fassina, D’Attorre) si incontra nella sede di Nens, il centro studi fondato da Pier Luigi Bersani e da Vincenzo Visco, o nella stanza di Fassina a Montecitorio, in seduta permanente. «Abbiamo la riunionite», renzeggia uno dei presenti, ma non c’è bisogno di chissà quale conclave per capire che in quattro hanno quattro posizioni diverse sul da farsi. D’Attorre, il più legato a Bersani, è per combattere Renzi ma all’interno del Pd e nel prossimo congresso, insomma se ne riparla tra qualche anno. Cuperlo è indeciso: «Extra ecclesiam nulla salus», sospira, fuori dal Pd non c’è salvezza, ma anche dentro è un girone infernale. Fassina non voterà la fiducia al governo sul Jobs Act ma vuole restare nel Pd. Civati è sempre più tentato dal mollare il partito.
Divisioni speculari a quelle che si agitano all’interno della Cgil. Il 25 ottobre ha dimostrato di saper trascinare ancora la sua base in piazza ma non ha deciso quale strategia adottare nei confronti di Renzi, né quali rapporti tenere con la minoranza del Pd che vorrebbe essere il braccio politico-parlamentare del sindacato, una cinghia di trasmissione alla rovescia. Due giorni prima della manifestazione l’organizzazione di Susanna Camusso aveva spedito un messaggio per i parlamentari: «il corteo sarà solo sindacale, restate a casa». Poche ore dopo è arrivato il contrordine, con Cuperlo che chiamava i dirigenti della Cgil: «Ma insomma, ci dite che dobbiamo fare?» Nel sindacato rosso la leader dei pensionati Carla Cantone è contraria a proclamare uno sciopero generale e predica la necessità di dialogare con il governo, in polemica con la Camusso: «No al muro contro muro, o peggio, alla finzione del muro contro muro».
Il capo della Fiom Maurizio Landini è invece convinto che si andrà fino in fondo: «Lo sciopero generale si farà». «La Cgil è sfidata dal premier, non ha altra scelta, deve andare avanti. E su questa strada nascerà un partito neo-socialista alternativo al Pd», prevede l’ex dirigente sindacale Luigi Agostini, che all’inizio degli anni Duemila lasciò la Cgil per aderire ai Ds su posizioni riformiste, contro l’allora leader Sergio Cofferati. «Ma era un’altra epoca. Ora in Francia il premier Valls vuole cambiare nome al Partito socialista. E l’economia di Renzi è quella dei focolarini: parla dei singoli casi, Giuseppe, Maria, Marta, e non di un capitalismo finanziario che negli anni della grande crisi si è fatto più brutale».
La battaglia del sindacato e quella della minoranza Pd hanno un punto di incontro annunciato: il voto della Camera al Jobs Act, senza modifiche, sarà il passaggio definitivo con cui Renzi avrà la delega, i pieni poteri, per procedere alla riforma del mercato del lavoro. È in quell’occasione che si prepara il doppio strappo. La fiducia richiesta dal premier per inchiodare la minoranza, o si sta dentro o si sta fuori, dalla maggioranza e dal Pd.
E la reazione dei dissidenti. Civati si prepara a cogliere l’occasione per uscire dal partito in cui ormai vive da estraneo. L’annuncio arriverà nei tempi e nei modi della politica, ma il deputato lombardo non crede sia possibile costruire un’alternativa a Renzi dentro il Pd. Voterà no al Jobs Act come ha votato no al decreto Sblocca Italia. E poi comincerà a lavorare a un progetto alternativo al Pd, sperando di trascinare con sé qualche altro nome storico del partito: «Se con me venisse Cuperlo sarebbe una ferita che Renzi non potrebbe ignorare: siamo i due candidati che lo hanno sfidato al congresso, la conferma che il Pd è diventato una formazione personale», ripete ai suoi.
Il resto della minoranza teme di finire schiacciata nella resa dei conti. «Attenzione, chi esce dal Pd offre un bel regalo a Renzi. Fare politica significa preparare le trappole, non cascarci», sintetizza Sposetti. Lo spettro che si aggira in quella che fu la Ditta di Bersani, essere intrappolati tra il partito di Renzi, sempre più centrista e con le porte aperte, spalancate, per gli elettori berlusconiani in uscita e una formazione residuale a sinistra, guidata dall’ex gemello della Leopolda Civati o dal capo della Fiom Landini.
Sono gli unici due nomi pronunciati con rispetto da Renzi nell’ultimo fine settimana. Per l’amico Pippo c’è stato l’appello a tornare a discutere insieme. Per Landini il premier manifesta stima. Nella Cgil e nella minoranza Pd sospettano che le affettuosità nascondano l’esistenza di un accordo con il capo della Fiom, una replica del patto del Nazareno a sinistra. Una spartizione delle zone di influenza: a Renzi il potere, il governo e il ceto medio, a Landini e Civati l’opposizione e la rappresentanza di un blocco sociale delimitato. Con la Camusso costretta a inseguire Landini su posizioni radicali per non farsi sfuggire di mano la leadership sindacale. E con il risultato che il partito alla sinistra del Pd sarebbe guidato da un altro sindacalista mediatico, più credibile di Fausto Bertinotti, ma minoritario, innocuo per Renzi, forse vantaggioso.
Ecco perché lo scontro che sta per aprirsi nel Pd sul controllo delle proprietà delle fondazioni di Sposetti è un passaggio decisivo dell’operazione. Sfilare all’apparato post-comunista, quel che resta, posti di comando e il patrimonio accumulato in quasi cento anni di storia significa per Renzi arrivare al pieno controllo del partito che diventerà il motore dell’operazione. Un partito senza confini nella destra ex berlusconiana, da costruire in tempo breve, perché le elezioni anticipate restano sullo sfondo. L’eredità immobiliare del Pci dovrà essere sacrificata per finanziare il progetto di un soggetto che assomiglia alla Democrazia cristiana per composizione sociale e collocazione al centro del sistema politico. È la preda che Renzi intende conquistare. Sacrificare l’Ottobre rosso per far rinascere, infine, la Balena bianca.

Marco Damilano

Davide Serra, lo strano "neo-comunista" con affari nei paradisi fiscali



Gli affari d'oro del renziano Davide Serra - La complicata architettura societaria del gruppo che fa capo al finanziere di Algebris, amico e finanziatore del premier,  sarebbe impossibile in Italia. E va da Londra al paradiso fiscale delle Cayman (di Vittorio Malagutti - l'Espresso)
Le sue filippiche contro la burocrazia e 
il fisco oppressivo dell’Italia ormai fanno parte degli show di contorno delle ultime edizioni della Leopolda. Tra l’altro, Davide Serra se l’è presa anche con gli scioperi dei servizi pubblici, che, a suo dire, allontanerebbero gli investitori stranieri. 
Il patron dei fondi Algebris, amico e finanziatore di Matteo Renzi, parla come un emigrante di lusso, una sorta di esule della finanza che da una ventina d’anni vive e lavora a Londra. A un professionista come lui, la City offre infinite occasioni d’affari. E non solo. 
La complicata architettura societaria 
del gruppo che fa capo a Serra sarebbe impossibile in Italia.
La capofila si chiama Algebris investments ltd e nel bilancio consolidato vengono indicate altre due omonime affiliate, 
una ha sede negli Stati Uniti, a Boston, l’altra è una “limited partnership” inglese. Quest’ultima, la Algebris investments Llp, è il cuore del gruppo, quella che incassa le commissioni pagate dagli investitori per la gestione dei vari fondi d’investimento. Gli utili aziendali di una “limited partnership” non vengono tassati e in seguito distribuiti sotto forma di dividendi agli azionisti come succede per le società di capitali ordinarie. In base alla legge britannica, i partner prelevano una quota dei profitti esentasse della Llp. Queste somme confluiscono poi nella dichiarazione dei redditi di ciascuno.
Londra non è l’unica sede delle attività targate Serra. La galassia di Algebris arriva anche al paradiso offshore Cayman, dove ha sede la filiale che nel 2012 
diede origine alla controversia tra 
il finanziere e Pier Luigi Bersani. L’allora segretario del Pd accostò lo sponsor 
di Renzi ai «banditi delle Cayman». 
Ne nacque una causa in tribunale vinta 
da Bersani. Esiste anche una Algebris con base a Singapore, (un altro paradiso fiscale) che ha ricevuto 2,6 milioni dalla Algebris londinese a titolo di “compensi per consulenze”.

Documenti alla mano, Serra guida una macchina da soldi, con profitti per 7 milioni di sterline (circa 9 milioni di euro) su 11,7 milioni di giro d’affari. La capogruppo Algebris investment ltd ha pagato solo 106 mila sterline di tasse (pari a 133 mila euro), mentre i nove partner, tra cui Serra, si sono divisi 6,9 milioni di sterline.
Nelle carte societarie, il finanziere amico 
di Renzi viene indicato come “controlling party”, cioè socio di comando. Tra gli associati troviamo alcuni collaboratori dello stesso Serra e il “The Children Investment Fund” di Chris Hohn, un investitore con la fama dello spegiudicato raider di Borsa. Secondo il periodico americano “Forbes”, l’hedge fund di Hohn avrebbe guadagnato quasi 400 milioni 
di dollari nel solo 2013. Da qualche anno il socio di Serra ha messo nel mirino una preda particolare, nientemeno che l’agenzia di rating Moodys, quotata a Wall Street. Hohn ha investito quasi un miliardo di dollari per il 5 per cento circa del capitale della società che dà le pagelle alla solidità finanziaria di aziende e stati sovrani. Italia compresa.

Vittorio Malagutti

1710/1115/1800


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