Requiem for a joint

Creato il 17 dicembre 2011 da Olineg

La cosa è poco nota, ma avrà una portata epocale sul costume europeo; i turisti che dal 1 gennaio 2012 giungeranno ad Amsterdam, si vedranno sbarrare la porta dei coffee shop, che saranno accessibili solo ai cittadini olandesi. La decisione del governo, che era nell’aria da diverso tempo, sembra abbia motivazioni puramente ideologiche e di immagine, non sono state infatti addotte ragioni di ordine pubblico, o pressioni internazionali, considerare motivazioni economiche sarebbe paradossale, visto che si stima che oltre un quinto del turismo nella capitale olandese abbia in quei locali la meta principale. Qualsiasi sia la ragione appare quantomeno grottesco che i cittadini non residenti nei Paesi Bassi non abbiano la possibilità di acquistare un bene di consumo (e non un servizio pubblico) consumabile sul posto, al quale hanno invece accesso i residenti, come se i bar italiani si rifiutassero di servire la sambuca con la mosca ai turisti tedeschi, o le trofie col pesto agli americani nei ristoranti di Genova. Una cosa è certa, col nuovo anno a gioire, oltre ai conservatori proibizionisti, saranno i cartelli criminali, che potranno contare su un piccolo margine di guadagno in più; se infatti un canapista (il correttore automatico me lo sottolinea, ma se esiste “tabagista” non vedo perché non possa esistere anche “canapista”), magari italiano, che si regalava ogni anno uno o due soggiorni di relax ad Amsterdam, ora dovrà ricorrere necessariamente al mercato illegale per soddisfare la sua abitudine (giusta o sbagliata la si consideri).

Come commiato ripubblico un racconto in cui faccio un brevissimo riferimento a quello che, comunque la si pensi, è e rimarrà nell’immaginario di svariate generazioni, un mito: il viaggio ad Amsterdam.

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– Eravamo solo dei bambini –. Disse Michele guardando a terra.

La concisione della sua risposta mi spiazzò, ma la tempestività con la quale aveva tentato di troncare il discorso mi fece capire come quel ricordo fosse ancora vivo nella sua testa. Non ero solo. E allora continuai.

– Perché tiri fuori questa storia? – mi guardò con odio, era la prima volta che lo faceva da quando ci conoscevamo.

Avevo dodici o tredici anni, e a quell’età cominciano a svilupparsi una fame e una sete spirituali; la prima, eccezion fatta per pochi enfant prodige, si sazia con le seghe, per la seconda serve della letteratura in senso ampio, ma siccome ero una capra e dove abitavo non c’erano cinema né negozi di dischi, internet non esisteva e la gente ancora sbalordiva davanti al televideo, mi accontentavo dei Cavalieri dello Zodiaco. Poco fa mi è capitato di rivedere alcune puntate della serie classica, e le ho trovate deprimenti; sequenze scontate e personaggi perennemente a terra gonfi di botte, ma all’epoca mi offrivano tutto il mistero, l’epica e il sangue che un bambino, che si candida a diventare adulto, desidera. E poi c’era la storia del cosmo interiore, che non è poi così originale ma per noi preadolescenti di provincia era un’irresistibile eresia, bisognerebbe fare uno studio per quantificare quanti cultori del cartone animato siano finiti nelle grinfie della New Age e dell’esoterismo, se quella miscela di neo-paganesimo ed animismo li abbia vaccinati oppure plagiati. Per quanto mi riguarda a dodici-tredici anni avevo ancora un bambino dentro la pancia che frignando reclamava la sua parte, e così io e i miei amici, nerd ante-litteram, finivamo a giocare interpretando le puntate dei Cavalieri dello Zodiaco, ognuno aveva il suo personaggio; io ero Pegasus, perché ero il promotore ed ero l’esperto indiscusso del cartone, Michele era Phoenix, perché era il capo carismatico, infatti tutti erano dell’idea che se anche Pegasus era il protagonista Phoenix era il più forte, Federico faceva Cristal il Cigno, ruolo che gli spettava per diritto fenotipico essendo biondo. Poi c’era il problema di Andromeda, anche se non eravamo omofobici, e a quell’età non sapevamo nemmeno cosa significasse, la personalità di Andromeda ci metteva a disagio, nessuno voleva idealmente indossare la sua armatura fucsia, la sua insicurezza e i suoi modi gentili, ma c’era un elemento della trama che ci traeva d’impaccio, Andromeda era fratello di Phoenix, quindi Andromeda poteva essere Marchino, il fratello piccolo di Michele, che pur di giocare coi grandi era anche disposto a vestire i panni di quella che definivamo una femminuccia. Ci mancava Sirio il Dragone. Sirio era un personaggio fico, ma con la salute gli aveva detto sfiga; era malato di cuore e arrivò al Grande Tempio in stato di cecità. Pensammo a Paolo Della Gioia, un ragazzino gracilino con un binocolo al posto degli occhiali, Paolo era il meno popolare di tutta la scuola media, non aveva amici e anche i nostri genitori non volevano che lo frequentassimo, in quanto i suoi erano testimoni di Geova. Ma noi eravamo degli illuminati, noi eravamo i Cavalieri dello Zodiaco, così un giorno, durante la ricreazione, gli chiesi se quel pomeriggio si fosse unito a noi, lui mi abbracciò e gridò in modo che tutti sentissero: – Io e Bruno siamo amici!

Fu la cosa più imbarazzante che mi fosse mai capitata dopo l’incidente de “la vedova bianca”, ma quella era fuori concorso; era l’estate dei nostri diciotto anni e avevamo da poco preso la patente, ma solo Michele aveva il nulla osta parentale per prendere la macchina di sera, le nostre agognate patenti, invece, al calar delle tenebre diventavano dei miseri pezzi di carta di colore ambiguo. Quell’anno eravamo in fissa per un locale all’aperto vicino al mare, raggiungibile solo attraverso strade strette e non illuminate, incorniciate da alberi tristi e grossi massi, ogni tanto, al ritorno, davamo un passaggio a qualcuno, meglio se una ragazza, e allora scattava il gioco de “la vedova bianca”; uno di noi, generalmente io, raccontava come su quella strada ci fossero stati un sacco di incidenti, causati da una vecchia vestita di bianco che all’improvviso sbucava in mezzo alla carreggiata dal buio della campagna, facendo sbandare l’auto che aveva davanti, il racconto poi spiegava come la vecchia corrispondesse alla descrizione di una donna impazzita dopo la morte per incidente del marito, e che da qualche anno risultava scomparsa. Dopo qualche attimo, prima che la tensione creata dal racconto scemasse, Federico strillava “Eccola!” indicando il ciglio della strada, e Michele sbandava come per evitare la vecchia. Detto così potrà sembrare una stronzata, come sembrano delle stronzate le trame dei film horror quando vengono raccontate, ma la nostra vittima ci cascava sempre, per un solo attimo intendiamoci, un secondo dopo scoppiava a ridere, eccetto una volta. Era una ragazza che conoscevamo appena. Lei dopo non rise, e non ridemmo neppure noi; si era pisciata addosso, forse al locale aveva bevuto una birra di troppo e siccome c’erano solo bagni chimici forse aveva preferito trattenere la vescica, fatto sta che i suoi pantaloni di tela avana venivano divorati pian piano da una macchia più scura, lei emise solo un gridolino appena percettibile, portò le mani sulla bocca e si guardò il ventre, noi non potemmo che non seguire il suo sguardo, infondo avevamo organizzato quel teatro solo per gustarci la sua reazione. Nessuno ebbe il coraggio di dire nulla, lei era catatonica, furono i quindici minuti più lunghi della mia vita. Anni dopo la vidi in aeroporto, lei non mi riconobbe e io non la fermai. Andavo ad Amsterdam; pensando a quella ragazza entrai per la prima volta in vita mia in un coffee shop, e mi si gelarono le tempie quando lessi il nome di una qualità di erba: “White widow”.

Quel pomeriggio portammo Paolo alla grotta, in realtà non era una vera grotta, era un cunicolo scavato mezzo secolo prima dai partigiani per nasconderci le armi, un posto da cui i nostri genitori ci dicevano di stare alla larga, e di conseguenza uno dei nostri posti preferiti. Decidemmo che Paolo si sarebbe dovuto sottoporre a una prova di coraggio: entrare nella grotta e rimanerci per almeno cinque minuti. Paolo aveva una voglia matta di scappare via, ma il desiderio di essere accettato agiva in direzione opposta; come risultato rimaneva immobile e tremante. Per convincerlo gli dicemmo che dentro la grotta avrebbe riacquistato la vista come Sirio il Dragone nel tempio di Cancer. Alla fine trovò il coraggio, ma dopo pochi metri nell’oscurità inciampò, sentimmo un tonfo vellutato, e forse Paolo non si sarebbe fatto prendere dal panico se cadendo non avesse perso gli occhiali, come se gli fossero serviti a qualcosa in quel buio. Paolo piangeva, chiedeva aiuto, ma noi non ci muovevamo, non avevamo paura della grotta, ci eravamo entrati un sacco di volte, avevamo piuttosto paura di qualcos’altro, del fatto che sentire qualcuno piangere e soffrire per colpa nostra in qualche modo ci affascinasse. Poi Federico il cigno si decise a entrare e a tirare fuori il povero Paolo.

– Hai ragione –, dissi a Michele – eravamo solo dei bambini.

Avevo pensato che ci fosse qualcosa in me che non andava, nel non aver dimenticato mai quell’episodio, e nel ripensarci spesso. Ora scoprivo che lo stesso valeva per Michele. Forse Paolo lo aveva dimenticato, noi no. Eravamo solo dei bambini, ma dopo non lo fummo più, quel giorno diventammo adulti a calci in culo; cercavamo il nostro cosmo interiore e ci trovammo solo un buco nero.



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