È una domenica mattina afosa e opprimente e sfilo lentamente lungo una minuscola via nel paese di mia madre. Guardo le case. Sono piccoli edifici a due piani con giardini strutturati, garage, balconcini invasi di fiori, pulizia, ordine, decenza. La vita che vi si svolge è palpabile. C’è un uomo dietro a un cancello che raschia la vernice, compie i suoi piccoli lavori domenicali. È biondo e porta un paio di baffi alla Bufalo Bill, ha l’aspetto di un immigrato dell’est. Il cielo è coperto da uno strato sottile di nuvole, per la strada non c’è nessuno, sono tutti rintanati in queste minuscole tane refrigerate. Cerco di captare la peculiarità di questo posto, l’elemento distintivo, come se fossi un turista proveniente dall’altro capo del mondo, anche se in realtà vengo qui da quando sono nato. Guardo le cose con dolcezza, adagio, ma non vedo niente. È una strada che ha perduto ogni anima, tutti i suoi segreti. Da queste parti la combinazione delle diverse culture ha prodotto un ibrido scialbo e impersonale. Proseguo fino a un piccolo giardino comunale. Mi siedo su una panchina, tiro il fiato. C’è una bambina di due anni sull’altalena che mi osserva con un sorriso pacifico, con curiosità. Suo padre la spinge svogliatamente. Loro due, insieme a Bufalo Bill, sono le uniche anime che incontro. L’afa mi invade, mi imprigiona. Quando torno a casa mia madre mi avverte che sono pallido, che ho gli occhi spenti, che forse è meglio che mi sieda sulla poltrona a respirare.
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