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Retroscena Crozza-Rai: così Viale Mazzini ha dovuto rinunciare a più di di quattro milioni (La Stampa)

Creato il 24 ottobre 2013 da Nicoladki @NicolaRaiano
Retroscena Crozza-Rai: così Viale Mazzini ha dovuto rinunciare a più di di quattro milioni (La Stampa) Stavolta basta fare due conti per capire che le «ganasce» applicate alla Rai dalla politica pesano più di un colossale macigno. Non solo sul piano industriale, ma anche sul fronte editoriale e del business puro, cioè sui ricavi pubblicitari. Per questa ragione quando il direttore generale dalla Rai, Luigi Gubitosi, in Commissione di vigilanza, accusa la politica di aver fatto saltare il trasferimento di Crozza da La7 a Raiuno, si comprende bene che al danno si è aggiunta la beffa.
E già, perché a fronte dell’investimento (circa 450 mila euro a puntata il costo dello show di Crozza chiavi in mano per viale Mazzini) il passaggio dell’artista alla rete ammiraglia della Tv pubblica avrebbe non solo abbassato il costo di produzione (mediamente si sarebbero risparmiati più di due milioni) della prima serata ma anche prodotto margini di reddito maggiori in termini di ricavi pubblicitari.
Ed, infatti, se l’intrattenimento di Raiuno costa mediamente 800 mila euro a puntata, tagliare 350 mila euro per dieci serate «avrebbe significato un risparmio produttivo e quindi generato utili», si spiega a viale Mazzini. Una doppia operazione dunque: meno costi e soprattutto più spot, con una serata programmata dalle 21,30 alle 22,30 e obiettivi di share costruiti intorno all’evento, quindi, certamente elevati e comunque tali da richiamare i grandi big spender pubblicitari. Certo, difficile fare stime finanziarie certe per un programma mai testato e mai realizzato ma è chiaro che se «Che tempo che fa» su Raitre raggiunge percentuali di ascolto medio tra il 12-13% (e porta a casa mediamente 200mila euro di spot a puntata), Crozza su Raiuno avrebbe avuto potenzialità ben superiori, almeno vicine al doppio che avrebbe condotto, di fatto, almeno alla compensazione delle spese coi risultati economici.
Non solo, statistiche alla mano i programmi cosiddetti di intrattenimento, «anche in prima serata – spiega una fonte ben documentata del palazzo di viale Mazzini – non si ripagano mai con gli spot pubblicitari, perché non vengono mai riproposti a differenza della fiction». Fiction che, però, (a livello di miniserie) costa mediamente un milione e mezzo a puntata. E tranne nel caso di «Montalbano», che ha addirittura saturato gli spazi commerciali con addirittura quattro blocchi spot, o «Don Matteo», non riesce mai a ripagarsi nei costi di produzione nel primo passaggio.
«Ecco perché – si fa osservare a Viale Mazzini – Crozza sarebbe stato un vero affare. Soprattutto perché dimezzava il costo del prime time, e consentiva alla rete di acquisire un nuovo pubblico e ringiovanire». Così, conti alla mano lo show di Crozza con uno share stimato intorno al 23% avrebbe potuto fruttare alla Rai anche 100mila euro in più a puntata rispetto al costo di produzione. Non è un caso, infatti, che ad esempio «Report» che pure è un programma di approfondimento giornalistico (su Raitre) costi 180 mila euro a puntata ne incassi 10 mila in più (190 mila euro) ma con uno share (superiore alla media di Raitre) intorno al 10%. Un riscontro più immediato, invece, lo si può avere con «Tale e quale» (sempre Raiuno) condotto da Carlo Conti: in questo caso la prima serata di Raiuno porta nella casse Rai una media che oscilla tra i 500 e i 700 mila euro a serata. A conti fatti, dunque, se Crozza totalizzasse uno share medio simile a quello di «Tale e quale» potrebbe anche portare a casa circa 150 mila euro a puntata che moltiplicato per dieci serate significherebbe 1milione e mezzo di euro. Cifra che distribuita, poi, su un possibile contratto (quello discusso) a lungo termine (circa 2 anni e mezzo) per trenta puntate avrebbe significato una media di ricavi di circa 4 milioni e mezzo. Numeri solo stimati certo, e ancora tutti da verificare ma che comunque dimostrano come la politica abbia ancora una volta sbagliato nelle valutazioni. O almeno nel sottostimare i numeri.
Paolo Festuccia per "La Stampa"

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