Revisione. Rifacimento. Riaggiornamento. Remake. "Arthur" è la versione 2011 di "Arthur" versione 1981, a sua volta revisione "creativa" di una serie di commedie anni '40, a loro volta fuoriuscite da stampi della generazione anni 30', a loro volta frutto di un disegno cinematografico più europeo che americano. E così nacque un genere sempre uguale a sè stesso, nei suoi meccanismi, non nella sua riuscita. Niente di nuovo, niente di che, e soprattutto nessun tocco d'arte a salvarlo dall'oblio del suo egocentrismo e della sua ambizione, figlio moderno di antenati troppo illustri.
Un merito va dato ad "Arthur", versione 2011, regia di Jason Winer: la piacevolezza. Non ostinato come le nuove commedie volgarotte del decennio (tra punti massimi sublimi e terrificanti battutine pre-scolari), la pellicola con Russel Brand è un tentativo di svincolarsi dalla trita e ritrita "ottica" sessuofila del mood statunitense a vantaggio di qualche scelta più patetico-referenziale. Ma il demerito maggiore di "Arhur" è l'essersi addentrato senza alcuna consapevolezza critica nel sentiero ameno e difficile della commedia propriamente classica, quella che nasce con Lubitsch e arriva a maturazione con Wilder, fino a diventare un canovaccio standard, un marchio di fabbrica in continua decadenza, bypassando cambiamenti sociali in modo spesso arguto, ma anche finendo in una voragine qualitativa difficile da riempire. "Arthur" sta proprio in questa seconda categoria. E' un film di intrattenimento, spesso incolore, spesso asettico, ma non ha nè un bisogno nè una necessità. Anche l'originale del 1981 non è che fosse (soprattutto considerando anche il sequel di pochi anni più tardi) una fonte imprescindibile, ma almeno univa in uno sgangherato cocktail-party artistico attori/caratteristi perfettamente in parte, dal compianto Dudley Moore all'Oscar John Gielgud, senza dimenticare Liza Minnelli, non evitando di interagire con lo yuppismo rampante tipico del periodo. L'"Arthur" di oggi non è una critica sociale al sistema, è una favola che assomiglia sempre di più solo ad un'angolazione di realtà, quella che magari, tra scandali e poco altro, fuoriesce dai giornali di gossip, sebbene sia edulcorata, positivizzata. Ed è quotidiana molto più che allora, tanto che alcune sequenze come la BatMobile sembrano riecheggiare inchieste giudiziarie e dicerie vere o presunte dei nostri giornali. Arthur risulta così insieme un personaggio moderno ma anche superato in termini di idiozia da altri nuovi e vecchi anchorman in cerca di festini e adulazioni, che sperperano money in frivolezze patologiche. Il film è leggero, rispetto alla pesante realtà. E il cast non è all'altezza del vecchio ensemble, con un Russel Brand dalla vocina fastidiosa che perde appeal quando si prende sul serio, una magistra Helen Mirren che si confronta con un monster della recitazione come Gielgud senza brillare, e due attrici di nuova generazione molto diverse, una depotenziata Greta Gerwig un po' persa, un po' Amelie, e una sensuale ma rigidissima Jennifer Garner. La scolare direzione di Winer rende ancora più drammatica la sorte del regista originale della pellicola, che aveva osato molto di più in termini comici e non, quel Steve Gordon di cui "Arthur" rappresenta l'unico progetto cinematografico andato in porto, prima della morte nel 1982.