Cominciamo con l'assunto che un documentario sia superiore ad un film, per quanto di un autore a tutto tondo come Michael Mann, nel descrivere la parabola sportiva, umana e sociale di Cassius Clay/Muhammad Ali. La realtà estrapolata e vissuta con diretta partecipazione dai suoi sfidanti, intervistati durante il proseguire del film, in modo da far cogliere i tratti salienti della sua vita in un ordine cronologico e semplice, ha la meglio sulla sua rappresentazione finzionistica, che prende strade non sempre corrette e, a volte, si concentra su aspetti non necessari, allungando il brodo. Quindi, "Facing Ali" del poliartista Pete McCormacki un merito ce l'ha, quello di essere un prodotto di mestiere, in cui una buona tecnica si aggiunge di una certa analisi non banale sul personaggio che, soprattutto nella prima parte, diventa oggetto di un lavoro piuttosto inusuale circa la personalità riottosa, il senso dell'ambizione, le amicizie religiose-politiche adeguate, il culto di sè stesso, con una megalomania folle, che ne contraddistinguono il carattere. Nella seconda parte, è chiaro che la problematizzazione venga meno, così come il ribellismo giovanile contro il Vietnam. Si passa, inoltre, ad un ricordo diverso. edulcorato, reso positivo da parte dei pugili che si destreggiarono, con toni spesso aspri, con lui. L'idealizzazione della bontà nelle sequenze finali e la malattia che lo ha colpito duramente hanno fatto emergere il doppio lato della medaglia. Se fossi stato il regista, avrei molto puntato sulla fase di cesura dei due momenti, sulla salita impaziente da spaccone, fino all'apogeo del titolo mondiale, e, pian piano, arrivando alla discesa del mito, al suo confrontarsi con il parkinson, alla fine drammatica del suo titanismo, sottolineando una parabola che è di tutti gli uomini. Si cerca, invece, di dare spazio (troppo) alle voci dei compagni/avversari (con Joe Frazier in prima fila) e si perde il senso del progetto, che ha un forte valore documentaristico, ma una limitata capacità di interpretazione personale da parte di chi lo dirige. E, alla fine, viene da rivalutare, in un certo senso, "Ali" di Michael Mann.
Cominciamo con l'assunto che un documentario sia superiore ad un film, per quanto di un autore a tutto tondo come Michael Mann, nel descrivere la parabola sportiva, umana e sociale di Cassius Clay/Muhammad Ali. La realtà estrapolata e vissuta con diretta partecipazione dai suoi sfidanti, intervistati durante il proseguire del film, in modo da far cogliere i tratti salienti della sua vita in un ordine cronologico e semplice, ha la meglio sulla sua rappresentazione finzionistica, che prende strade non sempre corrette e, a volte, si concentra su aspetti non necessari, allungando il brodo. Quindi, "Facing Ali" del poliartista Pete McCormacki un merito ce l'ha, quello di essere un prodotto di mestiere, in cui una buona tecnica si aggiunge di una certa analisi non banale sul personaggio che, soprattutto nella prima parte, diventa oggetto di un lavoro piuttosto inusuale circa la personalità riottosa, il senso dell'ambizione, le amicizie religiose-politiche adeguate, il culto di sè stesso, con una megalomania folle, che ne contraddistinguono il carattere. Nella seconda parte, è chiaro che la problematizzazione venga meno, così come il ribellismo giovanile contro il Vietnam. Si passa, inoltre, ad un ricordo diverso. edulcorato, reso positivo da parte dei pugili che si destreggiarono, con toni spesso aspri, con lui. L'idealizzazione della bontà nelle sequenze finali e la malattia che lo ha colpito duramente hanno fatto emergere il doppio lato della medaglia. Se fossi stato il regista, avrei molto puntato sulla fase di cesura dei due momenti, sulla salita impaziente da spaccone, fino all'apogeo del titolo mondiale, e, pian piano, arrivando alla discesa del mito, al suo confrontarsi con il parkinson, alla fine drammatica del suo titanismo, sottolineando una parabola che è di tutti gli uomini. Si cerca, invece, di dare spazio (troppo) alle voci dei compagni/avversari (con Joe Frazier in prima fila) e si perde il senso del progetto, che ha un forte valore documentaristico, ma una limitata capacità di interpretazione personale da parte di chi lo dirige. E, alla fine, viene da rivalutare, in un certo senso, "Ali" di Michael Mann.
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