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Scorsese prodigio. Una carriera cinematografica di capolavori di fiction attraversata, continuamente, da una succosa e mirabile serie di documentari prettamente storici/biografici/personali. Il cinephile Martin alle prese con l'essenza totalizzante del cinema, senza limiti formali o contenutistici. Il potere di una storia attraversa e bypassa la forma scelta per raccontarla. Nell'anno della "conversione" al 3D con "Hugo", già idolatrato in patria, tre suoi documentari hanno segnato il passo (tra 2010 e 2011): "A letter to Elia", rivolto all'ultimo Kazan post-blacklist, "Public Speaking", tête-à-tête con Fran Lebowitz e i ricordi di un'America artistica che non c'è più e soprattutto "George Harrison: Living in the material world", dieci anni, proprio ieri, dalla morte prematura. Scorsese mostra un interesse maniacale e delicatissimo alle storie e riesce a sottrarre la sua mano esperta di regista dall'opera, quasi ovattando lo stile e asservendolo alla narrazione. La musica ri-diventa protagonista, e dopo il gruppo canadese "The Band" in "L'ultimo valzer" e il mitico Bob Dylan in "No direction home", opera essenziale per i neofiti prima di gustarsi il masterpiece in fiction di Todd Hayner in "I'm not there", corale metamorfosi delle tante carriere del cantastorie del Minnesota, senza dimenticare la non troppo riuscita parentesi live di "Shine a light", spettacolo dei Rolling Stones, viene a galla un nome importantissimo e imprescindibile nella storia culturale del Novecento, quel George Harrison che ha fatto parte dell'esperienza discografica e musicale più sconvolgente nella scena occidentale degli anni '60, I Beatles. Non parlo di gruppo, ma di esperienza, data la molteplicità di letture diversificate che hanno riguardato la band di Liverpool. Scorsese crea, partendo da una storia personale gigantesca, quella di Harrison, anima prima che artista, alla ricerca, nelle sue dissonanze, di una spiritualità pura e unica, una gigantografia umana che lascia senza fiato per cura, dedizione e che mostra come l'amore per l'arte sia qualcosa di radicato nella sua personalità di narratore. La documentazione non è incidentale o di facciata, ma passata al vaglio di ogni momento, indefinito o meno, della storia di George. "Living in the material world" è un'enciclopedia episodica di una vita, o meglio una Vita vera condensata in una quantità spropositata di immagini personali inedite, di interviste lunghe e penetranti, di intermezzi musicali appropriati e usati per scandire momenti tipici nella svolta di carriera di artista. In più di tre ore, mai tanto pesanti, mai tanto leggere da poter perdere l'attenzione, Martin non fa agiografia ma quasi "autopsia" dell'uomo, delle sue parole, delle sue scelte, della sua condizione esistenziale, delle sue innumerevoli frequentazioni, di ciò che ne rimane e di ciò che è ormai, di rimando, scomparso per sempre. Un collage inappuntabile che non si propone di proporre un giudizio e che denota un'ammirazione personale da parte del director nei confronti di una personalità tesa alla spiritualità come quella di Harrison. Scorsese non mostra il grande sforzo per riorganizzare un'opera "senza fine", anzi manifesta la sua leggerezza nell'assemblages ed invita chi guarda a percepire, senza eccessi, il pesante lavoro compiuto, quasi mettendolo a contatto con le maglie testuali dell'operazione. In questo film c'è la bellezza di Harrison solo perchè c'è la bellezza di Scorsese, due passioni e due forze vitali che si incontrano, in vita o al cinema, e non smettono di sorprendere e di colpire per la sincerità delle loro scelte.