La trasposizione di "Jane Eyre" by Cary Fukunaga è meticolosa e fedele. L'impressione che se ne ricava è di un condensato narrativo quasi miracoloso, molto attento alle dinamiche interne al memorabile testo originario di Charlotte Brontë e comunque capace di non perdere di vista picchi emotivi, ma nemmeno di sottovalutare la centrale importanza dell'ambientazione, sospesa tra splendide aperture paesaggistiche, tra desolate brughiere sovrastate dalla nebbia e sprazzi assolati primaverili, e interni in costante penombra, evocativi di un mondo trascorso, perturbante, profondamente romanzesco. La Jane Eyre di Mia Wasikowska è risoluta e glaciale ed è probabilmente l'incarnazione perfetta di un character che non richiede mai qualunquismo pseudo-romantico nell'approccio. Costruito con perizia tecnica ammirevole, il "Jane Eyre" di nuova generazione rifugge dalla tendenza all'attualizzazione e riesce ad intercettare gusto pre-romantico e gotico, senza enfatizzare le passioni, ma sublimandole in modo compiuto e rispettoso dell'esigenze del testo fondantivo.
La "trasposizione" di un classico, divenuto oggetto di serialità audiovisiva generazionale. Ogni generazione ha il suo "Jane Eyre"/"Cime Tempestose" come appunto ogni generazione ha il suo prodotto "post-Jane Austen". Cary Fukunaga è un regista giovane, che ha aperto la sua carriera ufficiale con un titolo, "Sin Nombre", che ha mostrato da principio il suo potenziale qualitativo. La scelta di un adattamento di Charlotte Brontë, più volte proposto da cinema e televisione (spesso con risultati tutt'altro che incoraggianti, penso alla versione del 1996 di uno Zeffirelli completamente fuori contesto), era rischiosa e preannunciava una radicale trasformazione contenutistica che avrebbe nuociuto all'identificazione originaria. Ma Fukunaga evita il pericolo di uno stravolgimento e non perde mai di vista l'opera di partenza, riuscendo, con la complicità di una sceneggiatrice doc, recentemente esplosa, come Moira Buffini, ad intercettare tutti i momenti-svolta della vicenda sotto un profilo introspettivo e non legato all'interesse propriamente spettacolare da azione estremizzata. Così il lavoro sui personaggi è molto affine al romanzo psicologico e a quello di formazione più che ad una svolta pienamente romantica, tutta giocata sull'eccesso melodrammatico e moralista. La modernità della nuova Jane Eyre sta nella sua assoluta comprensione/conoscenza della fonte originaria, che non permette divagazioni estreme nè si concentra sulla storia individuale del personaggio-eroina dimenticando il resto, la contestualizzazione storica, il riferimento ambientale, lo scavo interiore. La nuova Jane Eyre di Mia Wasikowska è colpita da attimi di titubanza, rigetta la semplice azione immanente e si getta, spesso e senza cognizione di causa evidente, in flashbacks che rispolverano la sua storia, il suo passato. L'uso dei flashbacks, che occupano la maggior parte della progressione temporale dell'opera, è perfetto per un alleggerimento dell'ottica patetica e riesce a rinnovare da dentro, evitando riletture integrative limitative, la fabula del romanzo, dando luogo ad un intreccio per nulla banale o inflazionato. Ma la quasi perfezione del film sta nella sua emotività algida, che non è manipolatoria nè ridondante, quanto piuttosto un'ottima occasione per trascendere dalla storia fine a sè stessa e per avviarsi alla rappresentazione dei motivi nascosti o impliciti al romanzo. Così sfumature psicologiche vengono a galla solo incidentalmente e alla Wasikowska è lasciata la centralità assoluta del dramma, grazie ad uno scavo psicologico a tutto tondo. Il resto del cast non sta a guardare, anche se qualche difetto emerge chiaramente. Michael Fassbender è perfetto per la parte, nonostante momenti non troppo felici (abbastanza risibile ed esagerato il contatto con la Bertha Mason di Valentina Cervi, che è il punto più basso del film), meglio va a Jamie Bell, rigorosa controparte maschile di Jane Eyre. Ma il cast è ricco di nomi degni di nota, compresa una Judi Dench come al solito efficace e una Sally Hawkins che si riscatta in un finale drammatico. Una menzione finale alle ottime e funzionali composizioni dell'Oscar Dario Marianelli e soprattutto alla cinematografia dell'emergente con "esperienza" decennale, Adriano Goldman.