8.0 su 10
"La vida de los Peces" è una forma cinematografica che andrebbe studiata da esperti. Girato in un unico ambiente, articolato nelle sue diverse ramificazioni interne ed esterne, una casa, condensato in un minutaggio che non arriva nemmeno all'ora e mezza, è un racconto in presa diretta, senza inutili orpelli. Per molti versi l'assetto è teatrale, in quanto è un film essenzialmente di movimento, un movimento cadenzato di un personaggio-fulcro, il protagonista, reso possibile da un montaggio asciutto. Ed è un movimento reale, temporalmente scandito senza ricorrere a flashbacks di raccordo che avrebbero appesantito, un percorso che è uguale a quello dello spettatore, che non si distacca quasi mai dal protagonista. Film di "contatto" e di "contatti", di continue sottigliezze, di gesti, di primi piani insoliti, di campo-controcampo senza una cognizione unica, di lirismo, di realismo, di simbolismo. "La vida de los Peces" è un oggetto indefinibile, lungo nel suo essere breve, meditativo nel suo essere silenzioso, ambiguo nel suo essere irrisolto. Un cinema alieno, che non è molto facile cogliere, che si allontana dalla sua terra, il Cile, per fornire un'immagine non stereotipata, nè occidentalizzata, ma personale, ancorata ad una singola storia, collegata ad altre, in un acquario di pesci metaforico che finisce per diventare meccanismo di fuga-avvicinamento insensato e ingestibile. La storia di Andre è quella di un ritorno-addio, e già in questi due elementi chiari fin dall'inizio si legge la sua contraddizione. Il vagare verso mari lontani equivale al distacco dal paese natio, avvenuto un decennio prima e ora materializzatosi definitivamente, dopo un ultimo saluto. In questo frammento si riannodano le storie del protagonista, le amicizie si salutano, gli amori brillano e perdono luce. Tutto nell'ora e mezza del film, senza dilazioni, senza grandi scene madri, senza allontanarsi dall'unico luogo, una villa di un amico. A volte sembra che il tempo si congeli, che l'emozione diventi eterna. A volte la sensazione è quella di un melò asciutto, animato dalla recitazione impercettibile e daigli splendidi giochi di luce, oltre che dal suono diluito di una musica che si apre alla malinconia e alla speranza insieme. Non c'è banalità alcuna, ma un senso di mistico vuoto che potrebbe risulatare, ai non amanti, non digeribile. A me è piaciuto. Diretto da Matías Bize, cast superbo. Santiago Cabrera è il protagonista, mentre nella seconda parte si profila una predominanza, tra gli altri comprimari, di Blanca Lewin, l'amore naufragato, l'amore ritrovato, l'amore immobile nel mare del passato tanto diverso dai nuovi mari del presente solcati come viaggiatore di professione.