Non è facile scrivere di un film come "The king's speech". Non è facile scriverne male, si intenda. Eppure qualcosa, alla fine, nonostante la confezione sublime, non quadra, come una di quelle pietanze visivamente affascinanti, che non convince il palato, per quanto ci si sforzi a non farlo vedere. E così due ore (quasi) piene di balbettii, di splendide stanze e battute sagaci non sono sufficienti a fare del film un "cult-classic". Se volessimo analizzare i singoli componenti cinematografici, dalla splendida fotografia di Danny Cohen, al lavoro storiografico notevole e non banalizzato (d'altronde il regista Tom Hooper opera sulla storia come un drammaturgo incallito attento alle psicologie minime dei suoi personaggi, come si intravede nel precedente "Il maledetto United") alla colonna sonora, firmata da Alexander Desplat in cerca di Oscar ,fino alla superba recitazione dei due antagonisti/alleati Colin Firth e Geoffrey Rush, non ci sarebbe possibilità alcuna di critica. Il film è la quintessenza formale della perfezione. Non c'è un movimento di macchina, un'inquadratura che non sia pienamente "artistica", sulla quale non vi sia stata un'attenzione certosina, seguendo le direttive di Hooper. Le angolazioni della macchina da presa sono tradizionali, ma riescono a dare un contributo psicologico ai personaggi, interagiscono in modo perfetto con gli stessi, cogliendone i singoli elementi mutevoli del viso e del corpo. In questo senso, lo stile di Hooper è un perfetto compendio di elementi classici, ma con un'attitudine europea che è di rara forza espressiva. A ciò si aggiungano gli attori, con un Colin Firth che lavora di enfatizzazione esterna di angoli interiori (e la prova è superiore al livello già eccelso di "A single man") e un Geoffrey Rush rustico e ruspante che convince appieno per la capacità di dosare atteggiamento adulto e ironia perspicace, eversiva, a fin di bene.Anche Helena Bonham Carter svoge con classe il ruolo della moglie, e si destreggia, come al solito, tra humor british e una vena di romanticismo, quasi materno, che è una novità per le sue modulazioni interpretative. Credo che il film sia attaccabile da un punto di vista preciso. E' freddo, emozionante a tratti, e inevitabilmente agiografico. Di questo, imputo la maggior parte delle responsabilità alla sceneggiatura, corretta, ma priva di quella artisticità e complessità che possa spiazzare lo spettatore. Se il ritratto della futura regina Elisabetta, nell'opera di Frears "The Queen", era mediato da osservazioni ambigue, e la stessa ambiguità può essere riscontrata nel Tony Blair della medesima trilogia interpretato da Michael Sheen, in questo caso domina l'effetto apologetico e il rimando storico è uno sfondo poco pregnante e rimandato all'ultima parte del film, senza l'enfasi necessaria a trasmettere emotività. Non è quindi nemmeno un problema di efficacia del copione, che è ricco di battute e digressioni intelligenti, quanto di opportunità di concentrarsi sul lato smaccatamente personale, lasciando da parte una dimensione storica che non sussume mai, nemmeno indirettamente. Peccato veniale, ma sempre un peccato. Se il film avesse guardato alla storia, anche seguendo uno stile poetico e dimesso, sarebbe stato un capolavoro. Invece è un buon film.
Non è facile scrivere di un film come "The king's speech". Non è facile scriverne male, si intenda. Eppure qualcosa, alla fine, nonostante la confezione sublime, non quadra, come una di quelle pietanze visivamente affascinanti, che non convince il palato, per quanto ci si sforzi a non farlo vedere. E così due ore (quasi) piene di balbettii, di splendide stanze e battute sagaci non sono sufficienti a fare del film un "cult-classic". Se volessimo analizzare i singoli componenti cinematografici, dalla splendida fotografia di Danny Cohen, al lavoro storiografico notevole e non banalizzato (d'altronde il regista Tom Hooper opera sulla storia come un drammaturgo incallito attento alle psicologie minime dei suoi personaggi, come si intravede nel precedente "Il maledetto United") alla colonna sonora, firmata da Alexander Desplat in cerca di Oscar ,fino alla superba recitazione dei due antagonisti/alleati Colin Firth e Geoffrey Rush, non ci sarebbe possibilità alcuna di critica. Il film è la quintessenza formale della perfezione. Non c'è un movimento di macchina, un'inquadratura che non sia pienamente "artistica", sulla quale non vi sia stata un'attenzione certosina, seguendo le direttive di Hooper. Le angolazioni della macchina da presa sono tradizionali, ma riescono a dare un contributo psicologico ai personaggi, interagiscono in modo perfetto con gli stessi, cogliendone i singoli elementi mutevoli del viso e del corpo. In questo senso, lo stile di Hooper è un perfetto compendio di elementi classici, ma con un'attitudine europea che è di rara forza espressiva. A ciò si aggiungano gli attori, con un Colin Firth che lavora di enfatizzazione esterna di angoli interiori (e la prova è superiore al livello già eccelso di "A single man") e un Geoffrey Rush rustico e ruspante che convince appieno per la capacità di dosare atteggiamento adulto e ironia perspicace, eversiva, a fin di bene.Anche Helena Bonham Carter svoge con classe il ruolo della moglie, e si destreggia, come al solito, tra humor british e una vena di romanticismo, quasi materno, che è una novità per le sue modulazioni interpretative. Credo che il film sia attaccabile da un punto di vista preciso. E' freddo, emozionante a tratti, e inevitabilmente agiografico. Di questo, imputo la maggior parte delle responsabilità alla sceneggiatura, corretta, ma priva di quella artisticità e complessità che possa spiazzare lo spettatore. Se il ritratto della futura regina Elisabetta, nell'opera di Frears "The Queen", era mediato da osservazioni ambigue, e la stessa ambiguità può essere riscontrata nel Tony Blair della medesima trilogia interpretato da Michael Sheen, in questo caso domina l'effetto apologetico e il rimando storico è uno sfondo poco pregnante e rimandato all'ultima parte del film, senza l'enfasi necessaria a trasmettere emotività. Non è quindi nemmeno un problema di efficacia del copione, che è ricco di battute e digressioni intelligenti, quanto di opportunità di concentrarsi sul lato smaccatamente personale, lasciando da parte una dimensione storica che non sussume mai, nemmeno indirettamente. Peccato veniale, ma sempre un peccato. Se il film avesse guardato alla storia, anche seguendo uno stile poetico e dimesso, sarebbe stato un capolavoro. Invece è un buon film.
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