revolverate e citazionismo...

Creato il 23 gennaio 2013 da Omar
Tre ore che scorrono fluide, lisce come l'olio. Tra sparatorie funamboliche e iperviolente, personaggi strepitosi, dialoghi scoppiettanti e tempi scenici perfetti. E poi gli interpreti: Christoph Waltz ha una faccia di tolla irresistibile, Leo Di Caprio fa l'istrione riuscendo a non gigioneggiare e Samuel Jackson merita tutti gli encomi che la critica internazionale sta riservando alla sua performance. E inoltre come non sbavare dinanzi ai richiami perenni al cinema di genere di casa nostra? Insomma una goduria. Ma. C'è un ma grosso quanto una casa. Il fatto è che per l'ennesima volta, ancora e forse più che altrove (oddio, superare il primo Kill Bill in questo senso è impresa difficile), Django Unchained è un calderone di citazioni realizzato magnificamente, fotografato da Dio e orchestrato con maestria ma NON è un film western. Né un southern-movie, come qualcun da qualche parte l'ha definito. Una volta che lo spettatore si è deliziato con la sequela sterminata di citazioni cui Tarantino ci ha abituato (e questa volta emoziona davvero trovare sin dai titoli di testa i riferimenti all'Italia, dalla partecipazione amichevole di Franco Nero, Django originale, alla rielaborazioni di alcuni temi storici del nostro spaghetti-western sino alla collaborazione di Ennio Morricone e la cantante Elisa), infatti, ci si sorprende a constatare che mai, neanche per un minuto, si è entrati in sintonia con la vendetta che anima (dovrebbe animare) l'intera vicenda. E che della liberazione della «negretta» imprigionata a Candyland nel Mississippi più cupo e razzista, moglie dello schiavo liberato Jamie Foxx (appunto, Django), alla fine non ce ne importa quasi una benamata. Perché il pubblico in platea viene sin dai primi minuti del film rapito dalla spirale di monologhi spumeggianti, di personaggi eccentricamente logorroici
(anche i più minuscoli, persino le comparsate - ché non a caso sono tutte di grande livello, attori pescati dall'onnivoro background di fan del cinema del regista) ma non empatizza neanche un istante col passato (passato?) crudele e intriso di pregiudizi che il regista dice di averci voluto raccontare. E con tutti i limiti della vicenda, forse il bravo Spike Lee qualche ragione da vendere ce l'aveva, quando ha criticato l'operazione dichiarando che Tarantino ha giocato con una ferita ancora aperta e dolorante dell'America come lo schiavismo. Ma Tarantino in realtà non c'ha nemmeno pensato, di farsi carico di una siffatta responsabilità. Perché Django Unchained non è un film serio. Tutto è così dannatamente sopra le righe (i merletti blu del costume del protagonista nella prima fase, le violente rinculate dei corpi colpiti dalle revolverate, i concioni tra i signorotti aristocratici e i loro servetti di colore, gli squartamenti dei poveri mandingos da parte dei cani) che non ha senso stare a chiedersi quanto ci sia di reale nella storia, né che tipo di riflessione si debba innescare sui temi che la pellicola in fondo tocca senza scalfire minimamente, perché DU non aderisce a nessun canone (non ai nostri spaghetti-western, che pur con le pezze al culo avevano una loro logica, né a quelli del western alla John Ford, che mai si sarebbe sognato di intrattenere il suo pubblico in maniera così pop). Django Unchained non è cinema. È meta-cinema puro. L'ennesima sfolgorante baracconata offertaci da un cineasta sempre grandioso, ma che forse ha pure rotto un po' le palle.

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