Rewind

Da Ultimafila22

di Giacomo Pagone

La guardava spesso, sempre. Guardava i suoi ricci color rame, i suoi occhi blu cobalto, la sua pelle diafana con sfumature perlacee che facevano risaltare ancora di più quelle piccole lentiggini sotto gli occhi.

Fosse stato un pittore avrebbe saputo ritrarre quel volto anche senza guardarlo. Semplicemente lo conosceva a memoria. Conosceva ogni neo e la storia delle poche cicatrici che segnavano quel corpo.

Si era innamorato sin dal primo momento in cui aveva posato il suo sguardo su di lei, o, come amava dire un tempo, sin da quando per la prima volta i suoi occhi si erano tuffati in quel mare blu cobalto che erano gli occhi di lei. Pura poesia. Tanto tempo fa.

Da un po’ di tempo le cose non vanno più bene come prima: litigi e silenzi troppe volte prendono il posto delle risate e dei chiassosi scherzi che rallegravano le loro mattinate domenicali.

Eppure, anche ora, disteso sul letto, si fa sfuggire un sorriso nel pensare a quel loro primo incontro. Era stato strano. Certo non romantico. Strano.

Chiudete gli occhi e provate a immaginare quale possa essere la città più romantica del mondo. Parigi. Ora immaginate il posto meno romantico della città più romantica del mondo. L’aeroporto di Parigi. Strano. E’ lì che si incontrarono per la prima volta. Lui cercava di ordinare un caffè in un pessimo francese, alle sue spalle si era formata una lunga fila di viaggiatori furiosi e bisognosi di caffeina. Lei era arrivata, ordinando due caffè, pagando e andando via con la propria tazzina. Ad un certo punto si era voltata per incontrare il suo sguardo stupefatto e gli aveva chiesto cosa stesse aspettando a seguirla.

Parlarono per più di un’ora seduti ai tavolini del bar. Poi arrivò il momento dell’addio: lei avrebbe preso un aereo per New York, lui sarebbe tornato a Londra. Sarebbe stata una fine romantica per un embrione di storia che non sarebbe mai nato.

Strano. Lui era sempre stata una persona razionale, aveva sempre seguito le direttive del suo cervello. L’istinto, non sapeva nemmeno cosa fosse.

Prese anche lui l’aereo per New York. Mentre vedeva l’aeroporto allontanarsi lentamente, pensò a tutte le spiegazioni che avrebbe dovuto dare al suo ritorno, quindi impacchettò tutti i suoi pensieri e li immerse in quel mare blu cobalto.

Passarono un’incredibile settimana a stelle e strisce. Noleggiarono una macchina e fecero perdere al mondo le proprie tracce, guidando a tutta velocità verso il centro dei loro cuori.

Tanto tempo fa. Non troppo, ma abbastanza da non ricordare l’odore intenso della passione.

E’ bella, pensa. Nonostante tutto, nonostante le lacrime che le rigano silenti il volto, lui pensa che sia bella. Lui è disteso sul letto, ora. Lei lo fissa vicino alla finestra e la luce del giorno si riflette sulla sua pelle candida, illuminando i suoi occhi e i suoi capelli.

Come erano iniziati quei litigi, quelle discussioni? Non ricorda, è stanco. Forse, semplicemente, non vuole ricordare, gli basta guardare quella venere fantasma e tacere. Il resto si risolverà. Forse.

Stavano insieme solo da pochi mesi quando lui le chiese di sposarlo. Glielo aveva chiesto e basta. Non si era inginocchiato, come vuole la tradizione. Non le aveva comprato alcun anello in cui racchiudere l’amore che provava. Si era solamente svegliato una mattina, con la voglia di chiederle di sposarlo. L’aveva portata in un parco a fare un pic-nic. Poi, mentre guardavano le anatre litigare per un pezzo di pane, senza distogliere lo sguardo dal laghetto lo aveva fatto. Gliel’aveva chiesto.

Lei si era voltata stupita, non era sicura di ciò che aveva sentito. Lui, guardandola, prendendola per mano, aveva ribadito la sua proposta. Non ci sarebbero state carrozze o paggetti, al matrimonio, né petali di rosa o chicchi di riso. Solo loro due.

Si sposarono soli, senza nessun invitato, la settimana successiva in una piccola chiesetta dell’entroterra inglese, cui mancava il soffitto, crollato in seguito ad un bombardamento, secondo quanto aveva detto loro il prete. Durante la cerimonia avevano assaporato l’odore dei fiori portato dal vento e il canto degli uccellini, entrati nella chiesa da quel soffitto crollato.

Tanto tempo fa. Quanto?

Lei era bellissima. Come sempre. Forse anche di più. Fasciata in uno stretto vestito bianco, sul quale i suoi capelli sembravano una macchia di sangue scuro. Il suo sorriso accendeva le piccole lentiggini sul suo viso e i suoi occhi promettevano profondità mai esplorate.

Dopo la cerimonia noleggiarono una bicicletta e vagarono senza meta, in quel verde infinito. Lui pedalava allegramente, lei, seduta sulla canna della bicicletta, si teneva saldamente alle sue spalle e rideva di gusto.

Quanto gli mancano, ora, quelle risate. L’odore di terra ed erba bagnata, quando, sulla via del ritorno, gli aveva colti di sorpresa un fresco temporale estivo.

Di quel temporale ora sente solo i tuoni, non più il fresco sapore della pioggia sulla propria pelle. Lei piange ancora in silenzio accanto alla finestra. Lui, incapace di muoversi, sorride sul letto e ripensa ad ogni istante vissuto con lei, ad ogni suo riccio, ad ogni sua lentiggine. E’ finita, pensa. In un modo o nell’altro, questa storia è finita.

Ricorda quando iniziarono a cercare un appartamento. Non volevano vivere in città, così avevano deciso di trasferirsi in quel piccolo paese, proprio quello nella cui campagna si ergeva, stanca, la chiesa diroccata che era stata il tempio del loro amore. Avevano affittato quella casa a due piani, incastonata tra altre case a due piani, sulla via principale del paese. I mattoni marroni, il tetto scarlatto, la finestra all’inglese al piano terra, con tanto di vasi di fiori rosa come ornamento. Sarebbe stata casa loro. Non avrebbero potuto desiderare di meglio.

Le passeggiate in bicicletta della domenica mattina, il sapore di aria fresca ogni volta che si aprivano le finestre, il canto degli uccellini e lo scrosciare dell’acqua nella fontana della piazza.

Si sentono, ora, delle voci provenire dalla strada di fronte al loro appartamento. Voci concitate di cui non riesce ad afferrare nemmeno una singola parola. Lei è ancora davanti alla finestra ma non guarda fuori. Le lacrime continuano a solcarle il viso, lo sguardo fisso su di lui. Si è portata un dito alla bocca e, nervosamente, lo sta mordicchiando.

Se fosse stato un pittore, se solo fosse stato un pittore…Quante volte avrebbe ritratto quel viso. I suoi quadri sarebbero stati dipinti tutti di blu, tanto era stregato da quei mari racchiusi nei suoi occhi.

E invece non avrebbe saputo distinguere un pennello da una matita, e le promesse di dipingere il suo volto nel cielo, tra le stelle, si erano infrante nel rumore di un piatto rotto, lanciato contro il muro. Strano. La passione diventa follia, l’amore rabbia.

Chiude gli occhi. E’ stanco. Le voci fuori aumentano di intensità. Capisce qualche parola, non tutte, solo poche, sconnesse, parole. Troppo poco per immaginare di cosa stanno parlando.

Fuori, gli uccellini tacciono, solo il rumore dell’acqua che si infrange nella fontana gli riporta alla mente i rumori e i ricordi di un tempo.

Le campane della domenica mattina, che annunciavano la messa delle nove, entravano nella loro stanza trovando la giovane coppia addormentata e stretta in un abbraccio anche col caldo estivo.

Sensazioni di un tempo perduto, sapori di una vita precedente, lontana. Troppo lontana. In bocca solo un sapore amaro, come quello di un navigatore certo dell’esistenza di terre lontane ma che non possiede una nave per andare a scoprirle. Sapore amaro come quello che si assapora il giorno di Natale, quando si sa che tutto, ormai, sta per finire. Sapore amaro come il sangue, ora che, disteso sul letto, lo riconosce per quello che è.

Fosse stato un pittore…Avrebbe regalato al mondo l’immagine di quel volto, la sua passione, la sua dipendenza, la sua malattia.

Lei era così, dava passione e dipendenza, amore e malattia. Lui ne era gravemente ammalato, morbosamente innamorato. Di quegli occhi, quelle labbra, quei capelli, quelle lentiggini. Quegli occhi. Blu cobalto.

Fosse stato un pittore non avrebbe saputo imprimere sulla tela quei tratti così incredibilmente delicati, quel viso perfetto, dagli occhi rassicuranti e i capelli ribelli. Rossi. Come il fuoco.

E nelle fiamme di quei capelli lui era bruciato, divenendo un tutt’uno con quel diabolico corpo, con quella terribile anima. Blu cobalto, Rosso fuoco.

Stavano insieme da alcuni anni, ormai. Non era sopravvenuta nessuna monotonia, però. Stavano insieme come se fosse ancora il primo giorno, la prima ora, il primo caffè insieme.

E poi…E poi il suo lavoro, necessario, un dovere. Non avrebbero potuto vivere solo della loro passione.

Era stato costretto a fare molte trasferte di lavoro. Lei lo aveva aspettato sempre all’aeroporto, al suo ritorno. Avevano chiacchierato di quei pochi giorni di lontananza, quindi si erano lasciati alle spalle quell’orrenda interruzione delle loro vite. Una fastidiosissima virgola nella frase senza punteggiatura della loro storia.

Col tempo, però, lei aveva smesso di aspettarlo all’aeroporto. Sospettava. Pensava avesse un’altra, credeva di non essere più la sua malattia.

Quando glielo disse lui la guardò fisso. Sapeva che non scherzava. Da quel momento c’erano stati molti litigi. Uno, a volte anche di più, ad ogni suo ritorno da un viaggio di lavoro. Lui avrebbe voluto non tornare in quella casa, ma era sempre tornato, come un avvelenato che cerca senza sosta un antidoto. Lei era così, antidoto e veleno.

Litigi furenti avevano riempito i loro giorni fino ad oggi.

Lei lo guarda ancora piangendo, in silenzio. Lui la fissa sorridendo, steso sul letto, le mani sulla pancia, proprio nel punto della ferita.

Lui pensa ai vecchi videoregistratori, al tasto rewind, quello che serviva per riavvolgere il nastro. Vorrebbe averlo. Vorrebbe tornare indietro, non solo con i ricordi. Non può più, non c’è più tempo.

Troppe domande affollano la sua mente. Perché non potrà più tornare indietro? Cosa era andato storto stavolta? Cosa?, si domanda.

Poi la risposta arriva con l’ultimo ricordo. Lei lo ha pugnalato, ecco cosa. Al ventre. Proprio dove ora esce copiosamente quel fiume rosso. Sangue. Gelosia.

Fuori tacciono le voci. Si sente ora un gran trambusto fuori la porta della stanza. Due poliziotti, chiamati dai vicini- ecco cosa erano quelle voci in strada- fanno irruzione nella camera da letto. Le intimano di buttare a terra il coltello insanguinato. Lei non obbedisce, continua a fissarlo, in silenzio. Le lacrime corrono veloce sul suo volto. Il suo bel volto.

Lui le sorride, poi più nulla. Di tutta la vita che è stata, un solo ricordo lo accompagna nell’eternità.

 Blu cobalto, Rosso fuoco.


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