L’opera poetica di Paolo Fabrizio Iacuzzi, PARTE PRIMA
Un invito alla lettura.
Mi capita ancora, ed è esperienza tra le più sorprendenti, di leggere poeti che non godono sufficiente fama di pubblico o di critica; o che non si siano invischiati in gruppi e conventicole, ricavandone una qualche visibilità effimera. Poeti da leggere o da rileggere, e da restituire a una giustizia critica che purtroppo latita.
Paolo Fabrizio Iacuzzi ha pubblicato 4 libri; non sono riuscito a procurarmi il primo “Magnificat“, 1996, ma i successivi li ho trovati e letti: “Jacquerie”, Aragno 2000; “Patricidio“, Aragno 2006; “Rosso degli affetti“, Aragno 2008.
Sono opere che rivelano una voce originalissima, dalla poetica riconoscibile per tratti che trapassano da un libro all’altro in forma di vere ossessioni e intuizioni fondanti – del resto non può esistere poesia senza ossessioni – . Testi che elaborano un sofferto discorso sulla forma, aperti alle istanze della storia, del “sociale”, tema, questo, che ha costituito, a partire dagli anni novanta, il cavallo di battaglia delle cosiddette nuove generazioni, le quali stranamente non hanno riconosciuto in un libro come “Jaquerie”, un modello imprescindibile.
È un’opera intera, questa di Jacuzzi, senza dubbio tra le più vitali, urgenti ed allarmanti della mia generazione, che vorrei sistemare negli scaffali alti di una libreria ideale, insieme a poche altre. Splendente non solo per una compiutezza formale in sé, ma per una febbre del dire; come se si trattasse di parole ultime, di parole proclamate in una piazza di fronte ai potenti, all’indifferenza, all’ignoranza diffusa, alla paccottiglia postmodernista del catalogo e dell’archiviazione. Opera urgente, e per questo bruciante, capace di porre domande, provocazioni, implorazioni.
Queste mie brevi note vogliono costituire un invito alla lettura, piuttosto che un’analisi critica puntuale. Ché sono sempre più interessato a testimoniare un libro piuttosto che a recensirlo e dunque, come è evidente, si possono testimoniare solo le scritture che ce lo chiedono fermamente.
***
Jaquerie è un libro sconcertante per ricchezza di contenuto e per un cantare velocissimo che rasenta lo straneamento panico, un panico che non ha niente a che fare con il totalitarismo dionisiaco ma piuttosto con la giaculatoria e la predica savonaroliana.
Il titolo, fra i tanti, si presta ad evocare la giocoleria medioevale, quindi la festa rituale costruita per accumulo dei materiali, trattati come texture di colore che schizzano da tutte le parti – si vedano i bellissimi riferimenti agli iris, alle peonie – e forme che coincidono con la malinconia dei balocchi – leggiamo di una bicicletta dell’infanzia onnipresente – .
Ma anche ombretti, profumi, vesti, spazzatura, merci, in dialogo, ora tragico, ora comico, con il voyerismo del moderno, col kitch, anche mentale, con il magazzino dell’immaginario cinematografico e televisivo.
Una poesia che potrebbe ricordare, quantomeno per ambizione di serietà e spregiudicatezza, alcune fra le operazioni più complesse sulla lingua, Gadda, Ghelderode, Witmann, Testori… ma anche Rimbaud, e cioè una lingua che non si nega niente, capace di ingurgitare e sintetizzare letture ed esperienze, che sa tuttavia tenersi miracolosamente lontana da certo sperimentalismo enucleativo e monologante alla Sanguineti.
Questo avviene perché il dispositivo di controllo adoperato da Paolo Fabrizio Iacuzzi, è di natura etica; è la Storia, nella doppia medaglia di cronaca e racconto autobiografico. Concretissimi i fatti, le immagini, le situazioni, partendo dall’archeologia delle vicende famigliari, archetipi senza i quali ci è impossibile comprendere la nostra stessa storia.
E quindi leggiamo dei nonni, del padre, della sorella, della madre, degli amici, una reiterazione ossessiva di nomi e luoghi ai quali Iacuzzi chiede con ostinazione un racconto, una memoria, una giustificazione, un significato.
Fittissimi i chiarimenti nelle note, a spiegare geografie e personaggi: Cosimo, Giobatta, Gioacchino, gli antenati della famiglia Iacuzzi; Donatello e Francesco, il nonno e il babbo, qui combattenti; Giaccherino, Germinaia, paesi della campagna di Pistoia; il secondo luogo di sfollamento della famiglia materna… Persino lo stesso Fabrizio, qui l’obiettore di coscienza, ad indicare una comedìe humaine le cui azioni trascinano anche noi stessi, obbligati a recitare il grande canovaccio di una storia, volenti o no, più grande della nostra capacità di comprensione.
Succede, quindi, che questo sfrontato desiderio di nominare il complesso tessuto del dolore, finisce per includere paesaggi ben più vasti e diseredati: le guerre che ci circondano, gli effetti delle tirannie, il potere, gli schiavi del potere. “Le immagini della Terza Guerra dei Balcani si sovrappongono a quelle della Prima e della Seconda”, dei nomi dei bambini di “Casa Shalom, centro di accoglienza per i cosiddetti – bambini a rischio di devianza sociale -“, dei clandestini, dei reclusi negli ospedali psichiatrici, i bambini orfani, “i ragazzi di Bucarest che vivono nelle fogne”… Insomma, un gigantesco retablo in cui un’umanità assiepata in limiti angusti, o in vasti orizzonti che non hanno né senso né confini, si accalca e vocifera, chiede alla coscienza del poeta di avere voce, almeno nella forma dell’arte più povera di tutte, la poesia. Siamo nei dintorni del poema, del cantare commosso, dello sdegno e dell’impegno.
Appare fondamentale, fin da quest’opera, il tema dei lasciti generazionali, delle responsabilità verso se stessi e gli altri. Delle responsabilità che gli altri hanno verso noi stessi. Bellissima, mi sembra, l’intera sezione “La generazione dei nemici”, di cui riporto il primo testo:
Ritrovarsi fra tanti amici. Noi per dire
io Andrea e Marco in un nome. Ritrovarsi
per stare in agguato. Perdemmo presto
i nostri padri. Ma noi per dire io abbiamo
di nuovo una casa. Noi per dire io
fummo tra voi prima che ci conosceste.
Vostri amici e nemici dispersi. Chi
portando libri in una collana annerita.
E chi pensando di smacchiare il nome
della comune poesia. Chi di ogni alto
palcoscenico fa vanto per un solo fine.
E chi in basso appartamento si erge
sul piedistallo. Ma noi per dire io
abbiamo impiegato tanto tempo.
Siamo i vostri fratelli maggiori. O forse
i minori del vostro comune amore.
p. 43
E ancora, nel testo successivo:
Siate i padri che mai avemmo per noi.
Feriti dalla diffidenza a vicenda. Colpevoli
di stare alla realtà come un cieco sta alla fede.
p. 44
Sono poesie da leggere attentamente, che meriterebbero un discorso a parte, anche in merito agli esiti di una riflessione sulla poesia che è stata praticata in Italia dagli anni settanta in poi. Evidentemente Paolo Fabrizio Jacuzzi, nato nel 1961, come me, giunge a considerazioni che stranamente coincidono con le mie, per esempio in alcuni versi pubblicati successivamente in “Compitu re vivi”, e che potrebbero essere posti, insieme ai suoi, ad esergo della famosa generazione sommersa: “Ho creduto di essere giudicato / per la sola parola all’osso della / carne e della letteratura / la certezza della giustizia / dei fratelli maggiori”…
Monito postumo, o, forse, profezia.
Sebastiano Aglieco