RICCARDO BONFADINI Materia Pop: Fondazione San Domenico CREMA – di Luca Pietro Nicoletti

Creato il 22 aprile 2013 da Milanoartexpo @MilanoArteExpo

Riccardo Bonfadini, MATERIA POP – Family – Sacchetti di plastica – 91 x 140

RICCARDO BONFADINI Materia Pop: Fondazione San Domenico di CREMA. Testo di Luca Pietro Nicoletti. Inaugurata il 20 aprile alla Fondazione San Domenico di Crema (vedi MAPPA) la mostra dell’artista Riccardo Bonfadini dal titolo Materia Pop a cura di Luca Pietro Nicoletti e Giulio Santabarbara. L’esposizione prosegue fino al 5 Maggio 2013. Mostre recenti di Bonfadini a: Ginevra, Milano, Bergamo e Catania; nel 2010 partecipa ad Art Basel Miami Beach (U.S.A.) Exhibitalia con la Mazzoleni Art Gallery,  a due edizioni di “MostraMi” ed  a “AAM” (Arte Accessibile Milano). Nel 2012 è tra i vincitori del “Premio Ora”. Luca Pietro Nicoletti - Materia e iconologia Pop di Riccardo Bonfadini. L’artista mi accoglie nel suo laboratorio, a Soresina, dove abita e lavora: un grande ambiente al primo piano di una vecchia filanda dismessa. Qui, in un luogo di singolare rarefazione, rischiarato dalle vetrate bianche da cattedrale dell’industria di inizio Novecento, egli ha messo a punto le coordinate del suo più recente percorso di ricerca. > 

Se Riccardo, grazie all’esempio di suo padre pittore, ha da sempre familiarità con gli strumenti del mestiere, questa fase ha richiesto un distacco radicale dal quadro da cavalletto e dalle sue modalità espressive: era già stato un pittore figurativo di spirito ottocentesco e un pittore astratto di serafica geometria, prima di immergersi completamente in un mondo contingente.

Nel suo complesso, negli esiti di questa stagione iniziata nel 2008 riassumono implicazioni fenomenologiche, pratiche ed esempi di derivazione visiva da ricerche dei decenni più vivi del secondo Novecento: a seconda dell’aspetto su cui si concentra l’attenzione, infatti, non si resiste alla tentazione di richiamare alla mente, di volta in volta, Alberto Burri o Alighiero Boetti, o Mimmo Rotella. Il ricordo di questi numi tutelari, così distanti e apparentemente inconciliabili fra loro, tuttavia, basta a spiegare solo alcuni aspetti del lavoro di Riccardo Bonfadini, e aspetti tenuti insieme da una coerente dichiarazione di poetica e da una omogeneità di materiali utilizzati e armonizzati in un linguaggio aggiornato su un repertorio di cultura visiva altro rispetto ai tempi dei maestri poco sopra citati.

Riccardo Bonfadini, MATERIA POP – Piccioni – Sacchetti di plastica – 109 x 170 – 2011

In ogni caso, a Bonfadini è molto chiaro che l’arte contemporanea, come recita il titolo di un libro di Angela Vettese, Si fa con tutto: ogni strumento e ogni materiale, insomma, può prestarsi alla realizzazione dell’immagine. Ciò, però, non deve indurre ad attribuire un’eccessiva importanza, ai fini di una valutazione estetica, alla eventuale stravaganza del medium: questo, infatti, conta nella misura in cui condiziona i modi di costruzione dell’opera orientando il processo ideativo e immaginativo. Qualsiasi materiale impone dei limiti e richiede determinati accorgimenti, opponendo una sua resistenza, talvolta espressivamente significativa, a quei tentativi di snaturarne la vocazione formale. Così, le proprietà visive e meccaniche del materiale orientano le fasi operative, suggeriscono tecniche e soluzioni, sollecitano sperimentazioni. Riccardo Bonfadini, in tal senso, ha pensato di servirsi di un procedimento appositamente studiato, di arricchire il discorso pittorico ben oltre le stesse pratiche della pittura.

Tutto questo è stato suggerito da uno sguardo sul quotidiano, sulla società dei consumi e sui suoi simboli più rappresentativi. Si è reso conto, così, del valore pervasivo delle sporte e buste di plastica nella vita di tutti i giorni, e ne ha fatto la materia prima d’elezione del suo percorso artistico. Riccardo Bonfadini, infatti, ha capito che questo materiale così effimero, e il concetto sotteso allo stesso utilizzo estensivo dei contenitori di plastica era un simbolo emblematico del tempo presente da tramandare. Fa parte della sensibilità moderna, infatti, il senso estetico per la rovina, per la restituzione del passato in forma frammentaria o in forme fossile: è quella traccia che restituisce il senso di una discontinuità con un passato di cui si percepiscono soltanto dei lacerti. Riccardo ha pensato, non a torto, che un futuro reperto del terzo millennio potesse essere, dunque, un reperto di plastica, un Indutrial Fossil. In questo gesto c’era, sin da subito, un aspetto implicitamente sociologico: «il sacchetto di plastica», scrive l’artista stesso in una breve nota del 2011 sul proprio lavoro, «oggetto tra i più presenti nella civiltà contemporanea è l’espressione più fedele e sintetica del nostro vivere, legato indissolubilmente al consumo e alla produzione industriale. Il carattere Pop delle opere è riconducibile al fatto che i sacchetti utilizzati sono a tutti assolutamente noti e riconoscibili». Le coordinate di questo lavoro, quindi, sono già chiare: l’intenzione programmatica di testimoniare il proprio tempo mettendolo in prospettiva (il fossile), ma attingendo a un repertorio di cultura visiva tipicamente contemporaneo come il “carattere Pop”.

Riccardo Bonfadini, MATERIA POP – - Sacchetti di plastica – 150 x 150 – 2012

Due caratteri messi in luce chiaramente anche da Sergio Angeletti, nel medesimo catalogo del 2011, in cui osservava come «i sacchetti di plastica della spesa destinati all’estinzione divengono testimoni e memoria di quest’Era Industriale che li ha concepiti, partoriti, sfruttati a/in lungo e in largo, abbellendoli, imbellettandoli, rendendoli il più possibile attraenti affinché attraessero acquisti o al contrario sciatti, per farsi notare e criticare il meno possibili dalle induzioni ecologiste». Preservare questi oggetti, dunque, ha un valore di testimonianza di storia sociale, come se il presente di preoccupasse di quali testimonianze tramandare di sé ai posteri, e come se Riccardo Bonfadini si fosse soffermato sul gradino più basso, su quello delle cose più umili che in una logica idealistica non sono ritenute degne né di attenzione estetica né tantomeno di essere conservate. Eppure, sotto questo aspetto, l’operazione di Riccardo va nella stessa direzione di certa archeologia moderna, come sottolinea Andrea Carandini in un libro intervista del 2012 (Andrea Carandini, Il nuovo dell’Italia è nel passato, intervista a cura di Paolo Conti, Bari, Laterza, 2012) in cui osserva chiaramente che se l’archeologia del passato era attenta al monumento in quanto oggetto artistico, quella odierna non trascura quelle testimonianze che invece rendano ragione delle basi sociali, delle abitudini quotidiane e delle basi socio-economiche di un mondo tramontato. In questo senso si può leggere un’altra affermazione di Angeletti, nel medesimo testo del 2011: «non possiamo permetterci di lasciarli sparire del tutto [i sacchetti, n.d.a.]: parlano di noi, di cosa abbiamo voluto, ricercato, scelto; parlano d’una Civiltà che li ha fatti nascere e diffondere a miliardi, compiacendosi vistosamente d’averli messi al/nel Mondo, ma infine decidendo di ripudiarli e farne scempio, scoprendoli e dichiarandoli nemici della propria esistenza, minaccia precisa per la nostra salvezza».

Questo aspetto, però, non esaurisce la complessità del lavoro di Riccardo Bonfadini, se non per una parte o per alcune tipologie di opere. In alcuni casi, infatti, egli estrapola dal contesto la bustina e la sottopone a un trattamento di invetriatura, cristallizzandola come forma tridimensionale nella sua qualità di oggetto: la bustina o sacchetto sta a rappresentare se stesso in quanto tale, come vero e proprio ready-made, evidenziando l’aspetto consunto delle cose sottoposte a un uso frequente. Non abbiamo la busta ordinatamente spianata e regolarizzata, ma un oggetto bloccato nella sua funzione d’uso, come sporta pronta ad accogliere merci di varia natura, rigonfia o schiacciata, quasi sempre un po’ stropicciata, senza per nulla nascondere la propria natura effimera e senza pretendere di essere nobilitata o abbellita. Su queste buste, tuttavia, non di rado compaiono delle immagini, come ha fatto notare l’artista stesso: anche nelle forme più deteriori, infatti, la società dell’immagine non rinuncia a spazi di espressione, trasformando ogni superficie in uno spazio iconico adatto a contenere un’immagine. Non si tratta ovviamente di creazioni originali, ma di riconferme di un canone di immagini massificate e, al tempo stesso, banalizzate. L’artista, tuttavia, non può ignorare questo repertorio di marchi, di motivi ornamentali o di vere e proprie icone come Marylin Monroe o Audrey Hepburn che occhieggiano dalle sporte delle boutique o dei negozi di gadget: sono fenomeni su cui ci si deve interrogare per comprendere come l’immagine si sia smaterializzata, abbia non solo perso ma ucciso la propria aura per diventare altro. È il senso della cultura Pop, come Riccardo Bonfadini stesso faceva notare nella frase citata poco sopra, ma di un Pop che, ovviamente, non va inteso in senso storico come omaggio alla Pop Art americana, quanto come tendenza più generale ad attingere al repertorio delle immagini di consumo verso cui quella tendenza artistica, a partire dagli anni Sessanta, aveva indirizzato. Andando a monte, però, va sottolineata la natura neo-dadaista di utilizzo dell’oggetto fatta da Riccardo e come questa, per non essere gravata da un eccesso di concettualismo, ceda a inedite possibilità narrative.

Alcuni sacchetti, infatti, sono applicati su una tavola di fondo uniforme, come un oggetto appeso a un quadro, magari su un fondo colorato o decorato che interagisce con l’oggetto protagonista, successivamente tesaurizzato all’interno di una apposita teca di plexiglass. Talvolta, addirittura, l’artista è arrivato a delle vere e proprie installazioni di oggetti tridimensionali, come nella Shopping bag 001: un vero e proprio sacchetto inserito in una teca di plexiglass con tutto il tuo contenuto. In altri casi, invece, il sacchetto è al centro di un’azione: da esso fuoriescono oggetti di varia natura, come rotoli di carta igienica, barrette di cioccolato, rullini fotografici usati, addirittura delle banconote. È il sacchetto stesso a rovesciare sul piano il proprio contenuto, come una pioggia di oggetti bloccata da un improvviso fermo immagine che ne ha congelato a mezz’aria la caduta. Questo, però, è soltanto il primo livello di lettura dell’opera, il più immediato e il più appariscente. Se ci si sofferma con più attenzione, invece, ci si accorge di un livello iconologico più profondo, costituito dalla interazione fra immagine e linguaggio verbale, come se Riccardo Bonfadini avesse costruito, non senza uno spirito ludico, un piccolo rebus da decifrare. Il più immediato, in questo senso, è IF 88 Mont Blanc: sulla tavola è stata dipinta una strada a due corsie, attraversata da macchine giocattolo in ambo i sensi di marcia, che entrano ed escono da un sacchetto di plastica posto a un’estremità della strada dipinta: più che un sacchetto atto a contenere, in questo caso sembra un’apertura, come una caverna senza fondo o, meglio ancora, come un tunnel, una galleria, un traforo. Ma non si tratta di un traforo a caso, perché sulla busta è scritto a caratteri maiuscoli, su due righe, “Mont blanc”, il nome della nota marca di penne, ma anche il nome del più noto traforo delle Alpi: il sacchetto della ditta che vende penne di lusso, dunque, diventa allusione al traforo, in una reinvenzione ludica, giocosa, ma che fa riflettere sugli usi verbali della pubblicità e su come questi possano stimolare il processo immaginativo. Bonfadini, così, mostra attraverso metafore visive l’altra faccia della medaglia, fa “vedere” i nomi “da dietro” provocando un cortocircuito fra ambiti altrimenti molto distanti, ma con delle affinità verbali: lo stesso nome può denominare insomma cose fra loro molto diverse.

Riccardo Bonfadini, MATERIA POP – Sacchetti di plastica – 102 x 95,5 – 2013

Il gioco però è più articolato in altre situazioni, in cui trapela una sottile vena polemica. Su un altro sacchetto, ad esempio, si legge in caratteri bianchi minuscoli su fondo rosso, in più lingue: “Culture in bag”, “Sac a culture”, “Sacco di cultura” ecc… che da anche il titolo all’opera (IF 82 Culture on the bag). Da un certo punto di vista, la stessa invenzione verbale è di per sé un ossimoro: è palese l’intento, da parte degli inventori di questo motto, di alludere a una cultura che può essere acquistata come un merce, con un apposito sacchetto per la spesa analogo a quelli per l’acquisto di qualsiasi altro prodotto. È chiaro però cosa pensi Bonfadini di questa cultura che può stare in una borsa per la spesa, quando da questa fa uscire una cascata di rotoli di carta igienica: e molti più, oltretutto, di quanti questo ne potesse effettivamente contenere, come fosse una cascata continua e ininterrotta.

Talvolta, poi, l’interazione fra immagine e inserti verbali si completa con il titolo dell’opera. Si sarebbe potuta dare altrimenti una chiave ottimista, per esempio, ad uno di questi lavori in cui il sacchetto riversa una grande quantità di saponette con incisa in maiuscole la scritta “Sole”, se però questa non fosse intitolata IF 85 British Petroleum, titolare del sacchetto usato in questo caso (ma il riferimento è cifrato, dato che vi si legge solamente le iniziali “bp”): il petrolio inglese, sembra voler dire Riccardo Bonfadini, ha bisogno di essere pulito, in tutti i sensi, anzi di essere smacchiato per tornare a brillare come il sole. Il quadro, insomma, è un gioco di parole, ma un gioco amaro che diverte soltanto nel momento in cui si è sciolto il rebus e se ne coglie l’arguzia, per lasciare spazio poi a una più seria riflessione.

Allo stesso modo, ma con un intento polemico meno marcato forse, in IF 80 BPM la Banca Popolare di Milano, rappresentata per procura dal proprio sacchetto di plastica con tanto di marchio in bella vista, rovescia un fiotto di banconote su una carta della metropolitana di Milano, precisamente sulle fermate del centro della città, cioè nel vero cuore economico della metropoli.

È evidente quindi quanto questi lavori, rispetto al disimpegno tipico della Pop Art, rivendichino una funzione di denuncia, o almeno di messa in ridicolo dei poteri economici, anche se rappresentati nelle sue maniere meno nobili, che però sono le più pervasive e più penetranti all’interno della quotidianità. Bonfadini è cosciente della ricaduta iconologica di questo “mondo di plastica”, e lo fa capire chiaramente con un’immagine fotografica, poi trasformata in manifesto. Prendendo infatti spunto da Up, il cartone animato della Pixar (2009) che vede un anziano signore prendere il volo con la propria abitazione sollevata da una mongolfiera di palloncini, Riccardo Bonfadini ha pensato un set con una mongolfiera fatta di sacchetti di plastica che prendendo il volo trascinano con sé un manichino con le sembianze di Adolf Hitler. Sono sacchetti che hanno raggiunto il loro ultimo stadio, usati per la spazzatura appena prima di finire la loro vita in discarica in un cumulo di immondizie. Invece di gravare al suolo, qui, Bonfadini gli fa prendere il volo, con la speranza che portino con sé anche il peggio di quanto l’umanità sia stata capace di produrre: non solo il Nazismo (Hitler qui è solo un simbolo del male nella sua incarnazione più rappresentativa) ovviamente, ma qualsiasi abominio o stortura di cui l’uomo moderno è stato capace, anche semplicemente invadendo e soffocando il proprio mondo con una distesa di plastica e cemento.

Va in questo senso anche un’altra opera, che porta a riflettere su una diversa tipologia di lavori messa a punto da Riccardo Bonfadini: IF 89 Champ de fleurs, infatti, è un candido campo di margherite che copre tutto il piano; ma l’occhio non faticherà a riconoscere che queste margherite altro non sono se non il logo di una nota catena di supermercati. I fiori, insomma, sono diventati artificiali, non hanno né odore, né colore, né alcuna sensibilità visiva se non quella di un marchio.

Rispetto alle serie fin qui analizzate, si è tornati alla dimensione del quadro e all’immagine bidimensionale, con una variazione sostanziale nel modo di intendere il medium: «i sacchetti di plastica», scrive sempre Riccardo, «si sostituiscono ai colori». In questa serie, che chiama non a caso Fusion, la plastica viene utilizzata come frammento colorato da fondere a caldo insieme ad altri frammenti, fino ad ottenere un’immagine. Se fin qui il sacchetto aveva mantenuto la propria identità di oggetto e la sua funzione di contenitore (sia reale sia metaforico), qui invece viene completamente snaturato per diventare materia prima di un discorso visivo bidimensionale, lontano dalla dimensione del ready-made e da qualsiasi operazione concettuale. Questo non vuol dire aver annullato la dimensione simbolica o aver azzerato il gioco di rimandi verbali, ma soltanto che questi sono affidati a un modo più tradizionale di costruire l’immagine o, meglio, costruire il senso per accostamenti di immagini e non per assemblaggio di oggetti. In una parola, Bonfadini e tornato da una ricerca plastica a una dimensione strettamente pittorica, con la peculiarità di aver recuperato la dimensione del quadro senza il ricorso agli strumenti tipici con cui stendere il colore. È un processo analogo, concettualmente, all’operazione “pittorica” dei sacchi di Burri, scelti e accostati secondo una logica compositiva strettamente visiva come fossero delle campiture precolorate da unire sul piano: a monte, sono tutte operazioni che trovano la loro radice nel collage e nel papier collé, ossia nella costruzione dell’immagine attraverso l’accostamento di carte colorate. All’interno di questo campo, poi, Riccardo ha trovato la sua strada attraverso un recupero dell’aspetto iconico: il sacchetto, come si è già ricordato, è spesso luogo per collocare un logo, un marchio o una vera e propria immagine, cioè dei segnali iconici di riconoscimento. Questi, come nel caso del Champ de fleurs, consente un accostamento di immagini secondo diverse modalità. Nei casi in cui si serve di sacchetti privi di immagini, infatti, Riccardo ottiene dei suggestivi quadri monocromi che mettono in evidenza le qualità materiche della plastica, le sue increspature provocate dalla fusione: ad un primo sguardo, la competizione con la pittura è decisamente mimetica, al punto che si sarebbe tentati di identificare il medium in un pigmento dall’impasto denso dato a corpo. Quando invece Riccardo si serve di sacchetti con immagini, il risultato è una texture di loghi centrifugati dentro una superficie mobile, fatta dalle increspature della materia e dall’accostamento apparentemente casuale dei singoli frammenti, come delle isole galleggianti. La logica compositiva non è molto diversa da quella di certa pittura astratta: i sacchetti diventano tasselli cromatici accostati o giustapposti, manipolati e lacerati, stirati o fusi a seconda delle esigenze compositive. L’impressione di casualità, infatti, è solo apparente, perché Riccardo Bonfadini è attento agli equilibri compositivi e calibra coscientemente quando ottenere un risultato più pieno, cromaticamente “rumoroso”, o quando partire da sacchetti con loghi a fondo bianco, in modo da ottenere un mare lattato in cui i simboli grafici, sempre riconoscibili anche quando deformati dal calore e dallo stiramento, galleggiano come fossero stati riportati in superficie da un magma ribollente, come se fossero ambiguamente sul punto di affiorare o di essere inghiottiti dalla materia. Talvolta, però, Bonfadini non disdegna anche una organizzazione regolare della superficie, allineando i loghi come sugli scaffali del supermercato, o come se stesse realizzando una coperta di loghi ripetuti in forma seriale.

Arrivati a questo punto, però, nulla vieta di costruire, attraverso questi strumenti, un’immagine vera e propria, ricorrendo magari a sagome elementari e di facile riconoscibilità, da campire poi con la stessa modalità degli altri quadri “fusi”. Una delle immagini più adatte, da questo punto di vista, sono le carte geografiche: un’immagine con un preciso intento descrittivo, ma puramente astratta nella sua restituzione grafica dei profili delle zone terrestri. Per questa sua natura, la geografia ha offerto all’arte del Novecento numerose sagome da ritagliare, manipolare o campire in vari modi. Il più vicino, almeno a una prima impressione, alle Geographic Bags di Riccardo Bonfadini, è l’esempio di Alighiero Boetti, di cui condivide l’effetto polifonico dato dal fitto accostamento di tasselli cromatici: è la qualità materica la discriminante fondamentale che impedisce, a uno sguardo ravvicinato, di approfondire il confronto. Li accomuna, però, un approccio iconologico all’immagine. Boetti, infatti, in molti dei suoi tappeti-arazzi aveva fatto ricamare il disegno della bandiera entro i confini di ogni singolo stato, in modo da rendere percepibile il “peso” di ogni singolo stato come estensione geografica, con le relative ricadute metaforiche. Bonfadini, invece, ha trasformato le terre emerse in un patchwork di prodotti industriali, fusi fra loro: più che un mondo geopolitico, il suo è un mondo globalizzato, in cui non ci sono confini al consumo di merci e alla loro diffusione, come se questi stessero erodendo la superficie trasformandola in un ammasso caotico e variopinto. Già questo, sotto una parvenza giocosa, potrebbe essere un monito, se si volesse dare una lettura del lavoro di Riccardo in senso ecologista; senza dubbio non manca, invece, una implicazione etica. Ci si muove tuttavia su una soglia aperta: quello che potrebbe sembrare un monito, allo stesso tempo può proporsi da un’altra angolazione. È un meccanismo tipico dell’estetica Pop: se da una parte Marylin si spersonalizza e diventa un’icona, quasi un marchio, nell’operazione artistica il logo o il marchio assume un valore estetico attraverso le operazioni di riuso, o attraverso la reiterazione martellante, o le due cose insieme, come se l’artista suggerisse un modo diverso di vedere cose che sono sotto gli occhi di tutti.. L’operazione artistica, insomma, nobilita il brand dandogli una vita diversa da quella per cui è stato progettato. Può invadere le terre emerse, nel caso della carta geografia di Riccardo Bonfadini, ma può anche, al contrario, inondare gli oceani: chissà come sarebbe il Mediterraneo se i suoi fondali fossero “effervescenti naturali”!

Luca Pietro Nicoletti

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Riccardo Bonfadini

Nasce a Cremona nel 1971. Figlio d’arte impara  a dipingere avendo come maestro il padre Pino.

Muovendo dalla tradizione figurativa approda all’astrattismo geometrico e alla poesia visiva – nuova scrittura. Nel 2007 vince quale migliore artista/pittore il premio “Delle Arti e della Cultura” istituito da Indro Montanelli.

Le  sue creazioni, “Industrial Fossil” nate dall’utilizzo di sacchetti di plastica, sono connesse alla problematica più vitale del Pop.

Le ultime produzioni, “Wash” e il ciclo dei “Petits Jeux” prendono forma grazie ad una ironica visione della quotidianità; il recupero/riciclaggio degli oggetti,  diventa funzionale al concetto. 

Tra le varie mostre personali: nel 2007 espone al Circolo della Stampa di Milano in una  mostra intitolata “Mondo Sf(p)ogliato”. Nel 2008 espone  al Parlamento Europeo di Strasburgo con la mostra “Arte da Leggere”.  Seguono altre mostre personali e collettive di rilievo a: Ginevra, Milano, Bergamo e Catania; nel 2010 partecipa ad Art Basel Miami Beach (U.S.A.) Exhibitalia con la Mazzoleni Art Gallery,  a due edizioni di “MostraMi” ed  a “AAM” (Arte Accessibile Milano). Nel 2012 è tra i vincitori del “Premio Ora”.

Vive e lavora a Soresina in provincia di Cremona.

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MATERIA POP  di

Riccardo Bonfadini

Dal 20 Aprile al 5 Maggio 2013

Mostra inaugurata sabato 20 aprile 2013

Orari: da martedì a domenica 16-19

FONDAZIONE SAN DOMENICO

Via Verdelli, 6 – Crema

Info: www.fondazionesandomenico.it - 0373 – 85418

www.riccardobonfadini.it - mobile 340 5419476

www.spaziosantabarbara.it - mobile 348 3586323

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MAE Milano Arte Expo -milanoartexpo@gmail.com- ringrazia Luca Pietro Nicoletti per il testo e le immagini relative alla mostra Materia Pop di Riccardo Bonfadini presso la Fondazione San Domenico a CREMA.

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