Ricette gitane, curcuma e cardamomo

Da Alessandratioli

Il mio nome è Yaya, è il nome che ho avuto da mia nonna, la madre di mia madre. Siamo dei romaní, o  zingari, gitani, gipsies , tsiganes o manouches.
Siamo una famiglia nomade, da sempre, o almeno da quanto si possa sapere, andiamo ovunque le strade ci portino, sempre sulla terraferma, mai per mare, con la nostra casa al seguito, come le lumache, la casa che era della mia nonna.
E’ questa in breve è la sua storia e un poco anche la mia e forse anche quella dei miei figli futuri.

Yaya era una gitana del Rajasthan, parlava un antico dialetto indiano, era  una ballerina del deserto, una maga, strega e una cuoca eccelsa, ma soprattutto era una donna, di quelle che attraversano la vita, da sole, anche se hanno una famiglia e dei figli. Ha avuto tre mariti e molti amanti, ma una sola figlia e una sola nipote, io. Tutto quello che so me lo ha insegnato lei, direttamente o indirettamente, perché era sua abitudine parlare e parlare, raccontare anche quando sembrava che nessuno l’ascoltasse, e invece a distanza di anni, tutti i suoi racconti riaffiorano chiari come la scrittura su un foglio bianco.

Nella carrozza in cui viaggiavamo, ed abitavamo, c’era un unico grande letto, in un’alcova di legno scolpito e dipinto, ci dormivamo in tre, lei, io e mia madre per il tempo che ha vissuto con noi. In un angolo, era fissato alla parete un armadio con una grande serratura di ferro scuro, conteneva tutti i suoi tesori più preziosi, le erbe e le spezie che raccoglieva nei viaggi o che arrivavano con nomadi a cavallo, dal lontano oriente. Quell’armadio mi attirava come un barattolo di marmellata, ed ero sempre lì, quando lo apriva, un po’ per la curiosità del proibito ma anche perché l’intenso profumo di spezie e droghe che ne usciva, mi stordiva e, alla notte mi faceva fare sogni incredibili.
Ogni giorno, fuori dal carrozzone si formava una lunga fila di gitane, in attesa, negli abiti colorati, chiacchieravano e ridevano allegre, aspettando il loro turno. Quella con i dolori alle gambe, quella tradita dal marito, quella invece che non poteva avere figli, ognuna con un problema più o meno grande, speranzosa, attendeva.
Veniva spesso una donna bellissima, gli anni della giovinezza erano già trascorsi, ma continuava a rincorrerli, ballando tutta la notte con giovani tzigani, sempre più preoccupata per la vecchiaia imminente. Faceva lunghe sedute nel carrozzone, e molte volte restavo nascosta, sotto al letto, ascoltando i loro discorsi fino a che non mi addormentavo. Per lei Yaya preparava pozioni col suo ingrediente preferito, quello che non mancava mai nel suo stipo, quello con cui colorava tutti i suoi abiti, con cui tatuava le sue belle mani, quello che teneva lontani gli spiriti della notte, la polvere di chuanhuangjiang, o curcuma.


Nella sua tribù era considerata un simbolo di prosperità e un mezzo di purificazione per tutto il corpo. Una potente cura e un prezioso antidoto per molte malattie. Ma anche un rimedio contro i danni della vecchiaia e delle rughe.
Allora preparava un prezioso elisir, per la donna disperata, seguendo le ricette che si erano tramandate da generazione in generazione secondo la tradizione galenica.
In mezzo litro di olio di sesamo scioglieva 3 cucchiai di curcuma in polvere. Lo lasciava in una ampolla chiusa ermeticamente, nel buio del suo stipo, agitandolo ogni giorno per una settimana. L’ottavo giorno non lo agitava, e travasava  l’olio in una bottiglia di vetro scuro avendo cura di non smuovere il fondo. Questo olio magico…era un toccasana per le rughe del viso e del corpo.
Yaya non chiedeva compensi, ma alla fine della giornata fuori dal carrozzone rimanevano ceste piene di ogni segno di gratitudine. Dai semplici fiori di campo, ai frutti raccolti, tordi, conigli e galline. Le galline e polletti venivano accettati solo se di provenienza furtiva, sottratti da qualche pollaio mal sorvegliato.
A quel punto la nonna si trasfigurava ed iniziava il suo sabba in cucina, preparava piatti profumati di spezie, come le notti d’oriente. Dolci fragranti coperti col miele raccolto nei boschi e, soprattutto, il suo famoso pollo agli aromi di curcuma e zenzero.
Prendeva i polli e dopo averli sbollentati, li spennava perfettamente, li tagliava a grandi pezzi, conservando a parte le preziose interiora. Nel suo grande pentolone di ferro scuro, scaldava l’olio, e faceva ben rosolare i polli, con tante cipolle, quelle che raccoglieva al mattino, ancora bagnate con la rugiada della notte. Pestava l’aglio e lo zenzero, aspettava che la cipolla fosse trasparente poi li aggiungeva con sale, pepe e timo selvatico, i pomodori maturi e le interiora tagliate a piccoli pezzi. Solo allora compariva l’ingrediente segreto. Veloce e furtiva, spargeva la polvere gialla, la preziosa curcuma indiana. Aggiungeva l’acqua di una brocca e lasciava cuocere lentamente, finchè le carni non si sfaldavano nel sugo denso. Si mangiava quel pollo gustosamente con le mani, aiutandosi con un riso bianco e colloso che non mancava mai alla nostra tavola.


Ballava tra le pentole una danza tribale e al calar della sera i profumi della cucina erano un richiamo irresistibile, da ogni direzione arrivavano, amici e stranieri per far baldoria in compagnia, si mangiava e si beveva il sidro da bottiglie di coccio, si mangiava e si rideva, qualcuno si alzava e cominciava a suonare strumenti che avevano più di cento anni, si mangiava e si cantava e ballava finchè le forze cominciavano a mancare.

E solo allora Yaya, per far rinascere la festa, faceva girare una bevanda forte e scura come la notte, greve di spezie. Allora, ne conservava la ricetta gelosamente, ma ora è mia e la divulgo con gioia.
La polvere scura arrivava dall’Arabia, in piccoli grani che poi venivano pestati a lungo assieme ai semi del cardamomo. Si faceva bollire l’acqua con questa polvere a larghe dosi, oltre a miele ed un pizzico di zafferano che dava i riflessi dell’oro. Lo serviva da un bricco alto, col collo lungo, in piccole tazze di porcellana finissima, decorate in blu, con fiori e dragoni cinesi. Il qahwa si beveva lentamente fino a vedere sul fondo il piccolo seme, il cardamomo, che dà energia e forza. Lo si masticava a lungo, lentamente, col timore di inghiottirlo e per molto tempo rilasciava un pungente aroma, qualcuno si risvegliava il giorno seguente ancora col seme sotto la lingua. Le bucce si sputavano a terra  e pestandole nella danza ancora emanavano il loro forte aroma.
Quella bevanda potente, allargava i cuori, e dava forza alle gambe, e allora si ricominciava a mangiare, suonare, bere e ballare, ed amoreggiare fino all’alba.
Allo spuntare del sole, Yaya, mai stanca, guidava il carrozzone, mentre noi si dormiva nel letto di piume, per svegliarci altrove in posti sempre nuovi e diversi.
Spero che anche la vita dei miei figli e dei figli dei miei figli possa essere altrettanto magica.

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