Riconoscere il piacere

Creato il 11 dicembre 2014 da Frequenzedigenere @di_genere

Pochi giorni fa abbiamo tenuto una serie di laboratori sul tema del sessimo nella pubblicità  in un istituto superiore in provincia di Modena. Parlare di genere, violenza, relazioni, immagini e stereotipi con ragazzi e ragazze è sempre interessante e offre molti spunti di riflessione. Dei tanti portati a casa in quella giornata, uno in particolare mi ha dato molto da pensare. E’ successo nel corso di un’attività con una classe, quando, dopo aver guardato e analizzato diverse immagini, siamo arrivate a questa:

Alla domanda “A cosa vi fa pensare questa scena? ” diverse voci hanno risposto “A uno stupro”. Dopo qualche altro commento il discorso si è spostato su come uomini e donne vengano rappresentati all’interno delle pubblicità, cosa comunichino le loro pose, l’espressione dei loro volti. Nel corso della discussione un ragazzo, tornando su quest’immagine, ha detto che non gli sembrava di trovarsi davanti ad una rappresentazione violenta, anzi tutt’altro,  perché guardando la donna si capiva che quello che stava vivendo le piaceva.  L’immagine allora è stata riproiettata per poterla osservare nuovamente insieme a tutta la classe e qualche altro suo compagno ha condiviso questa interpretazione, sostenendo che “sì, si vede che le piace”.
Si vede che le piace? Nella foto c’è un uomo a torso nudo, con la bocca serrata e gli occhiali da sole a coprirne lo sguardo, chinato su una donna che tiene a terra, i polsi di lei bloccati dalla forza dei muscoli di lui, messi in risalto dall’olio e dalle luci; la donna non guarda l’uomo sopra di lei, il suo viso è rivolto altrove, la bocca semiaperta – altra consuetudine pubblicitaria. Forse non le si legge in viso paura o sofferenza, ma di certo non vi trovo traccia di piacere, coinvolgimento, consenso. A ben vedere, esprime quasi un’assenza, come spesso succede con i volti delle donne in molte pubblicità. Il suo corpo però parla, non è mansueto, non accondiscende all’azione dell’uomo, al contrario si mostra teso: schiena, busto e gambe sono sollevati, i piedi puntati a terra; altri quattro uomini poi guardano la scena, con espressioni dure, uno a torso nudo e gli altri vestiti. Questo è quello che vedo io. E quello che vedo non mi piace.

Negli incontri pubblici, nei progetti per le scuole, capita che qualcuno chieda se ci sono studi che dimostrino la correlazione tra sessismo pubblicitario e violenza di genere, se ci sono ricerche che sostengano che ad una regolamentazione pubblicitaria rispettosa della dignità della persona, che non riproponga stereotipi triti e ritriti, corrisponda poi effettivamente una società più giusta, una riduzione dei casi di violenza. Non è semplice dare risposte, perchè se quella dell’analisi dei dati è una questione delicata in generale, nelle questioni che riguardano la violenza di genere lo è in maniera particolare: il fatto che in uno stato in cui la pubblicità sessista è regolamentata ci sia un numero di denunce da parte delle donne più alto che in un altro non significa che vi sia più violenza, ma solo che in quello stato ci sono più donne che trovano la forza di denunciare, uscendo allo scoperto, superando la vergogna e il senso di colpa. E allo stesso modo non sappiamo se un numero minore di denunce corrisponda ad una società meno violenta, o piuttosto a una società in cui mancano  leggi ad hoc sul tema, fondi predisposti, personale formato per aiutare la donna nel suo percorso d’uscita (dalle forze dell’ordine che ricevono la denuncia, alle operatrici dei centri antiviolenza). Quello che sappiamo è che negli altri stati europei ci sono leggi che vietano chiaramente il sessimo in pubblicità e non solo quando si usano impropriamente  donne (o parti del loro corpo) per promuovere qualsiasi prodotto, ma anche in quelle pubblicità che ripropongono i ruoli donna casalinga-uomo guerriero. Sappiamo ad esempio che la Spagna ha promulgato leggi in cui si afferma chiaramente che la pubblicità sessista è direttamente collegata alla violenza contro le donne. E sappiamo che lo scopo della pubblicità è quello di invogliare all’acquisto,  generando in noi  continui desideri, la cui soddisfazione passa attraverso il consumo del prodotto proposto nella réclame. Ma in che modo raggiunge il suo scopo? Inventando storie e raccontandocele attraverso le immagini, storie che, spacciate per realtà, creano un mondo fittizio che condiziona la nostra percezione di ciò che è reale, ma non solo. Perché lo fa – specialmente in Italia – utilizzando continuamente immagini sessiste, in cui  la donna è sempre oggetto del desiderio altrui e mai rappresentata come soggetto desiderante. Sguardi vuoti o lascivi, bocche socchiuse e labbra evidenziate, seni e sederi ci raccontano che la donna è sempre disponibile, indipendentemente dal contesto: che stia salendo su un traghetto o mangiando uno yogurt, che stia indossando un gioiello o sia sdraiata su un cofano, il messaggio che passa è chiaro, e desolante. Il risultato l’abbiamo potuto toccare con mano in quella classe: un’alterazione significativa della capacità degli individui di decifrare le emozioni altrui. Così gli occhi di un adolescente possono vedere piacere e consenso dove i miei vedono violenza e dissenso. Può succedere che davanti ad uno sguardo vuoto e inespressivo pensi che quella sia un’espressione di godimento; può osservare un corpo teso, che reagisce a una sopraffazione e leggervi invece disponibilità. E quando queste espressioni, questi gesti, escono dalla carta patinata e vengono vissuti nel mondo reale, nell’esperienza di tutti i giorni, come possiamo decifrare quello che una persona ci comunica col suo corpo e le sue espressioni, se viene a mancare una capacità di codifica comune?

Posted on 11 dicembre 2014 at 12:49 pm in Seconda Stagione   |  RSS feed |   Rispondi   |   Trackback URL


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