di Mario Salis
Il 28 febbraio del 1943 a Cagliari, di domenica, era una bella giornata ma solo se si guardava il suo cielo, incredibilmente azzurro anche d’inverno quando si confonde con l’orizzonte del suo Golfo abbandonato allora anche dagli angeli. Sant’Anna presentava già il suo cupolone sventrato dalle precedenti incursioni. In altre chiese i Santi senza poter esaudire le suppliche dei fedeli si erano già sbriciolati o giacevano disseminati a pezzi tra i crateri delle navate e gli affreschi sbrecciati per sempre, come la speranza di una pace imminente e l’illusione svanita di una guerra lampo. Alle 12,55 ebbe inizio la terza e più sanguinosa delle incursioni su Cagliari: 85 aerei sganciarono 538 bombe animate dalla furia distruttrice di 123 tonnellate di esplosivo.
Il Palazzo della Dogana e la Stazione delle Ferrovie dello Stato furono distrutti. I corpi senza vita di studenti universitari allineati sulla piazza, resteranno l’immagine di una gioventù tradita e tormentata. Le sirene tacciono prive di energia elettrica sorprendendo molte vittime nelle proprie case, inermi obiettivi intelligenti ed indiscriminati. Il bollettino di guerra mente il bilancio delle vittime, non oltre 200. Anni più tardi, le macerie scaricate a Su Siccu dai ribaltabili dei camion si confonderanno con ciò che rimanevano di poveri resti.
Il silenzio s’impadronì di una città vuota invecchiata improvvisamente sotto quella coltre di polvere bianca. Quell’anno come scriverà Francesco Alziator po Sant’Efis non si cantarono is Goccius e neppure le launeddas ebbero il coraggio di suonare fu un miracolo che non tuonassero i cannoni. Comincia l’esodo di una città già in esilio, non sarà tutto più come prima, come a San Lorenzo però qualcuno farà qualcosa e risorgerà.