Questo brano è uno stralcio della conclusione del romanzo La soppressione benevola, uscito in edizione elettronica per LeggereLeggere di Milano. Il protagonista riflette, a posteriori, sull’epoca da lui vissuta vent’anni prima, quando una legge aveva decretato la morte obbligatoria per gli anziani. Anche suo padre era stato colpito dagli effetti della legge. Questa conclusione dà l’occasione al narratore della storia di elaborare alcune riflessioni sul senso del ricordare e sulla necessità, talvolta, di dimenticare.
La legge è stata abolita diciotto fa, solo poco dopo la morte di mio papà. Mio padre aveva avuto la sfortuna di essere tra i “sopprimendi” nel momento iniziale, quando la fobia anti-anziani era al suo climax. Per non perdere la mia testa e la mia vita, ho deciso di non pormi più domande troppo profonde su quel che è accaduto in quegli anni. Molti di quelli che, come me, hanno vissuto quegli anni tragici, da decenni non si fanno più domande: è un meccanismo di difesa. Eppure il male assoluto non si dimentica mai e resta impresso sulla pelle, avvinghiato ai filamenti nervosi del cervello, incastrato tra lingua e gola. È come un pezzo di pietra che non scende e non sale. Niente lo cancella. Ma ci si deve pur difendere da lui. Per questo, per quanto è possibile, si convive con il male assoluto: lo si tratta come un mobile brutto, che però non si ha il coraggio di buttare via perché è ingombrante e non passerebbe mai attraverso la porta di casa nostra, se non a prezzo di immani sforzi. E noi siamo vecchi: non abbiamo più la forza, né la voglia per compiere certi sforzi.
Non tutti ci riescono però. Qualcuno non è capace di convivere con quel rimorso che diventa un senso di colpa assiduo, e ne muore. Sì, è successo. Avevo un amico che negli anni ha vissuto sentendosi in colpa per la morte di suo padre. Naturalmente, sapeva che non avevano alcuna colpa reale; ma questo lo diceva la ragione, mentre il suo animo gli suggeriva un’altra cosa. Per decenni il mio amico ha resistito. Poi, un anno fa, diciannove anni dopo la soppressione di suo padre, si è ucciso. Si è lanciato dal balcone del terzo piano. Non è stato il solo. Altri, consumati dai rimorsi, si sono uccisi molti anni dopo la soppressione benevola dei loro congiunti anziani. Non è strano che si siano suicidati dieci o vent’anni dopo che il loro caro è stato soppresso. Il tempo non lenisce nulla e la sofferenza assoluta non è come il colore di una parete che sbiadisce con il trascorrere degli anni. Questa sofferenza, l’ho detto, diventa parte di noi e non tutti la sopportano allo stesso modo. Io e altri abbiamo deciso di convivere con lei: senza ignorarla, siamo riusciti a metterla in un cantuccio, in modo che non si facesse vedere né sentire eccessivamente. Perché non potevamo dimenticarla. Altri invece, forse più coraggiosi e onesti, non l’hanno messa in nessun cantuccio, ma hanno lottato ogni giorno contro di lei, finché, come il mio amico, hanno capito che non ce la facevano. E hanno trovato l’unico modo, per chiudere i conti a viso aperto con questa sofferenza: uccidersi. Loro, sì, si sono comportati da uomini, io invece... Credo di no.
Forse alcune volte la capacità di mettere da parte i ricordi tragici è una qualità, se non nobile, quantomeno utile. La memoria si conserva solo se riesce a ripulirsi con frequenza, a resettarsi. Quando vado nelle scuole a fare delle conferenze per rievocare il periodo della soppressione benevola, e dico che la memoria va ripulita, sento chiedermi dai giovani: se dimentichiamo quell’orrore, come faremo a evitare che torni? Chi ci racconterà di lui quando voi testimoni sarete morti? I libri?
Io rispondo sempre che il problema non è non dimenticare la barbarie rappresentata da quella legge, ma è come ricordarla. Il ricordo che funzione possiede? Perché non possiamo rinunciarvi? Io credo che i ricordi siano paragonabili a delle piccole ancore che ci tengono attaccati a un’asticella. Noi siamo uomini, dunque esseri fragili, e penzoliamo da queste asticelle. Alcune di esse sono robuste, altre meno, ma è più importante che robusti siano i ricordi, ossia le ancore, perché sono loro che ci tengono legati alle asticelle e che ci fanno sopravvivere. Per questo io penso che un uomo senza ricordi non sia più un uomo: l’asticella non lo può sorreggere più e lui cade nel vuoto. Credo che la nostra società soffra oggi di una malattia pericolosa, legata all’eccessiva quantità di ricordi accumulati. Quando dico queste cose, i giovani spesso strabuzzano gli occhi. Forse pensano che la mia sia una boutade; e invece non lo è. Io sostengo che dovremmo salvaguardarci sia dalla perdita dei ricordi, sia da un loro accatastarsi alla rinfusa. È una questione di ordine. Del periodo della soppressione benevola abbiamo parecchie testimonianze: filmati, libri, quotidiani, pagine web. Non manca nulla. E ogni mezzo di comunicazione illumina una prospettiva particolare sull’evento: ma io a volte mi perdo. Possediamo troppi ricordi, troppe immagini e rischiamo di non capire più qual è l’argomento in discussione e qual è l’uso corretto che di queste testimonianze dobbiamo fare.
Ci vorrebbe un po’ di igiene mentale. Nel senso buono del termine. Dovremmo diventare più rigorosi, affinare la capacità di selezionare i ricordi, le fonti, ossia la capacità di buttare via i ricordi superflui. Per questo io credo che una memoria troppo ricolma non serva a nulla. È come se le ancore di cui parlavo nella metafora diventassero, sovraccaricate di ricordi, troppo pesanti per le asticelle e le spezzassero. L’uomo scompare se è schiacciato da ricordi che non sa gestire. Un po’ di pulizia è necessaria. Perciò di quel che è accaduto non dobbiamo conservare tutto, perché non avremo poi nulla in mano che potesse darci la consapevolezza dell’orrore patito. Non sapremo che farcene di mille testimonianze. Quel che accaduto deve diventare memoria collettiva in modo sobrio, misurato, corretto. Parlando di me, io posso affermare che combatto ancora la mia battaglia quotidiana con i fantasmi di un passato atroce. La forza mi manca sempre più spesso, ma conservo ancora la lucidità per distinguere la mia vicenda personale da quella collettiva. E per parlarne. Spero che qualcuno, soprattutto tra i giovani, mi voglia ascoltare. E non sia semplicemente stupito, né solo inorridito, nell’apprendere cosa è successo. Domandarsi: “Come è stato possibile?”, è sbagliato, perché è un modo per assolversi a prescindere, pensando che quell’abominio di legge appartiene al passato, a una fase barbara della nostra società, e sia stata solo un’interruzione, dolorosa, del suo felice percorso storico. Ma non è così…